Nelle ultime settimane sembra che sul tavolo negoziale tra
associazioni datoriali, governo e sindacati si stia puntando sul potenziamento
del contratto di apprendistato al fine di una sua maggiore e più capillare
diffusione e per ridurre il ricorso a contratti “meno stabili” nelle assunzioni
di nuovi lavoratori.
In realtà il rafforzamento dell’apprendistato è un’azione
insufficiente sia per incentivare le aziende ad aumentare il numero di occupati
sia per ridurre il numero dei lavoratori che ad oggi hanno contratti di
collaborazione e/o a tempo determinato e quindi precari.
Perché il contratto di apprendistato non è un vero incentivo
per le aziende a nuove assunzioni
Il contratto di apprendistato è un contratto temporalmente
rigido. Non può essere interrotto (tranne che per giusta causa) prima della
fine del percorso formativo. Per lavoratori con un alto livello di istruzione
il periodo “rigido” è normalmente di 36 mesi. Durante il periodo di formazione
non è possibile modificare la mansione del lavoratore se ragioni
produttive/organizzative lo necessitano.
Durante il contratto di apprendistato il lavoratore guadagna
meno di un altro lavoratore “normale” che fa il suo stesso lavoro e l’azienda
ha un forte sconto (fino al 100%) delle spese contributive.
Il contratto di apprendistato è governato dalla
contrattazione collettiva e gestito dalla Province territorialmente competenti.
Ciò significa che le aziende possono utilizzare il contratto di apprendistato
solo se previsto dalla contrattazione e soprattutto devono seguire iter
autorizzativi a volte diversi a seconda della provincia in cui si intende
attivarli (da circa 10 mesi il MLPS ha emanato una circolare per l'accentramento delle procedure ma molte regioni non hanno ancora aggiornato i sistemi).
Poiché oggi le aziende che operano in mercati competitivi e
instabili, quando decidono di fare investimenti su nuovi prodotti/processi o
sedi territoriali, non possono assumersi l’onere di sopportare una tale
rigidità nel tempo e nell’organizzazione, esse preferiscono optare per
contratti più flessibili. Quindi nella maggior parte dei casi l’occupazione
incrementale (occupazione generata dalla crescita) non è assorbita
dall’apprendistato ma dalle altre forme meno stabili di contratto di lavoro.
Perché gli attuali “precari” non verrebbero assorbiti dai
contratti di apprendistato?
Le ultime statistiche, insieme all’esperienza quotidiana di
chi lavora su questi fenomeni, dimostrano che l’attuale “stock” di lavoratori
con contratti temporanei e parasubordinati verrebbe assorbito solo minimamente
dal contratto di apprendistato ulteriormente incentivato.
Come dimostrano diverse ricerche (fonte: lavoce.info) il 50 per cento di chi ha un contratto a
tempo determinato ha più di 30 anni. Peggio ancora nel caso delle donne dove la
media ha più di 35 anni. Si deduce che il contratto di apprendistato (che si
applica solo a chi ha meno di 29 anni) non potrebbe riguardare questi precari. Nel caso dei co.co.co, l'età mediana (vale a
dire l'età al di sopra della quale troviamo il 50 per cento dei nuovi ingressi)
è ancora più alta.
Infine bisogna notare come ormai lo “zoccolo duro” del precariato è costituito
da lavoratori con esperienze di lavoro consolidate che hanno una storia
professionale di numerosi contratti a tempo con diverse organizzazioni e datori
di lavoro.
Una ipotesi di soluzione per le aziende in sviluppo e che
creano occupazione e le persone in condizioni “precarie” dal punto di vista
lavorativo
In base all’esperienza che si sta facendo del mercato del
lavoro in Italia, una soluzione praticamente percorribile dei problemi di
“incontro” tra domanda e offerta di lavoro “stabile”, potrebbe essere quella
sviluppata dal disegno di legge Nerozzi e dai professori del sito lavoce.info e
cioè del cosiddetto contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
Questa ipotesi di contratto è nella sostanza un contratto
fin dal primo giorno a tempo indeterminato. Sono previste 2 fasi: la fase di
inserimento e la fase di stabilità. Nella fase di inserimento (p.e. 3 anni),
l'impresa ha la possibilità di interrompere il contratto di lavoro per ragioni
economiche in cambio di un indennizzo economico che aumenta all’aumentare della
durata del rapporto di lavoro.
In questo modo, le aziende che realmente sono in condizione
di generare occupazione possono assumersi dei rischi di investimento “certi”
eliminando invece tutti gli effetti dissuasivi generati dai rischi di
contenzioso o comunque connessi a processi complessi di licenziamento
collettivi o individuali.
Dall’altra parte l’introduzione di questo tipo di contratto
(accompagnata da forme di disincentivo al ricorso di contratti a tempo
determinato non stagionali) permetterebbe l’estensione agli ormai milioni di
lavoratori precari indipendentemente dall’età e senza gravare sulle casse dello
stato in quanto non è prevista decontribuzione né l’intervento di strutture
burocratiche come gli uffici delle Province e degli enti locali.
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