martedì 28 febbraio 2012

Feedback e responsabilità positiva


Nei primi mesi di ogni anno sono alle prese con i cicli di chiusura e valutazione delle performance e di conseguenza con i dubbi e le perplessità sincere dei mie colleghi a cui spetta il compito di “restituire” la valutazione annuale ai propri collaboratori.
Ogni volta ci chiediamo quale può essere il feedback più efficace. L’esperienza ci ha insegnato che il “segno” (positivo o negativo) del feedback non ha esiti scontati. Un feedback positivo a volte ha lasciato i collaboratori un po’ delusi mentre un feedback “correttivo” spesso peggiora la situazione.
I miei colleghi ed io, siamo riusciti, con l’esperienza e il conforto di un po’ di letteratura scientifica, a tracciare alcune indicazioni pratiche e orientamenti utili.
La prima osservazione riguarda la tipologia di lavoro e non il “carattere” della persona come magari si può pensare intuitivamente…
Le persone che fanno lavori molto regolamentati e proceduralizzati come anche coloro che hanno contratti temporanei sono molto “sensibili” a feedback negativi/correttivi. Questa tipologia di feedback, quando necessaria, riesce ad avere quindi effetti significativi sulla performance e risulta essere in genere efficace.
Nei casi invece di tipologie di attività “creative” nel senso di lavori in cui è richiesta la capacità della persona di scegliere tra diverse opzioni e dove quindi c’è un investimento personale, un feedback negativo anche se giustificato può avere effetti controproducenti. Invece in questi casi un feedback positivo ad una persona che ha avuto rendimenti positivi riesce ad alzare ancora ulteriormente il livello di performance o comunque dell’impegno.
Un effetto simile si può avere in considerazione della motivazione al lavoro del collaboratore. Nei casi di una prevalente motivazione legata alla remunerazione, i feedback negativi sono sensibilmente più efficaci mentre quelli positivi sono neutrali. Inversamente nei casi di motivazione prevalente nella soddisfazione personale i feedback positivi aumentano ancora di più la prestazione mentre quelli negativi possono ingenerare comportamenti ancora più negativi.
La regola generale da seguire empiricamente secondo la mia esperienza quindi è la seguente:
step 1: per prima cosa individuare la situazione organizzativa/gestionale in cui si trova il collaboratore e quindi stabilire se esso si trova nella area sensibile a feed-back positivi o a quelli negativi (motivazione, contratto di lavoro, valori, contenuti del lavoro);
step 2: se ci si trova in un’area sensibile al feedback negativo allora è consigliabile evitare aspetti positivi e concentrarsi sul bicchiere mezzo vuoto (che cosa non è andato bene, che cosa va corretto, casi negativi);
step 3: se ci si trova in un’area sensibile al feedback positivo allora è consigliabile lasciar perdere i gap e gli aspetti negativi e concentrasi sui punti forza. In questi casi se ci si trova di fronte ad una performance negativa è preferibile non insistere su azioni di miglioramento perché avrebbero molto probabilmente un effetto controproducente.
A conforto di questa esperienza, ho trovato molto stimolanti gli studi sviluppati dal prof. Avi Kluger sulla positive psychology e in particolare le metodologie di FFI Feedforward Interview.
In sintesi la proposta dell’FFI consiste nel rinunciare al classico colloquio di feedback basato sui gap di competenze e sulle azioni di miglioramento da attuare per aumentare le performance e di concentrarsi invece sui punti di forza da potenziare e sulle esperienze positive e di successo.

Il feedback di valutazione è nella sostanza uno strumento da maneggiare con molta attenzione. Se non usato bene può avere effetti molto negativi sulle relazioni professionali e sul clima aziendale. In situazioni dubbie e critiche io personalmente consiglio come estrema ratio di evitarlo.

I difetti purtroppo non si cambiano… possono essere solo o eliminati oppure sterilizzati.  

L’energia spesa per lavorare sui difetti è quasi una perdita di tempo… è meglio puntare sulle positività e coprirsi dalle debolezze.

Per chi è interessato ecco alcuni riferimenti: http://www.feedforward.co.il/about.aspx

martedì 14 febbraio 2012

Perché il potenziamento dell’apprendistato è insufficiente


Nelle ultime settimane sembra che sul tavolo negoziale tra associazioni datoriali, governo e sindacati si stia puntando sul potenziamento del contratto di apprendistato al fine di una sua maggiore e più capillare diffusione e per ridurre il ricorso a contratti “meno stabili” nelle assunzioni di nuovi lavoratori.
In realtà il rafforzamento dell’apprendistato è un’azione insufficiente sia per incentivare le aziende ad aumentare il numero di occupati sia per ridurre il numero dei lavoratori che ad oggi hanno contratti di collaborazione e/o a tempo determinato e quindi precari.
Perché il contratto di apprendistato non è un vero incentivo per le aziende a nuove assunzioni
Il contratto di apprendistato è un contratto temporalmente rigido. Non può essere interrotto (tranne che per giusta causa) prima della fine del percorso formativo. Per lavoratori con un alto livello di istruzione il periodo “rigido” è normalmente di 36 mesi. Durante il periodo di formazione non è possibile modificare la mansione del lavoratore se ragioni produttive/organizzative lo necessitano.
Durante il contratto di apprendistato il lavoratore guadagna meno di un altro lavoratore “normale” che fa il suo stesso lavoro e l’azienda ha un forte sconto (fino al 100%) delle spese contributive.
Il contratto di apprendistato è governato dalla contrattazione collettiva e gestito dalla Province territorialmente competenti. Ciò significa che le aziende possono utilizzare il contratto di apprendistato solo se previsto dalla contrattazione e soprattutto devono seguire iter autorizzativi a volte diversi a seconda della provincia in cui si intende attivarli (da circa 10 mesi il MLPS ha emanato una circolare per l'accentramento delle procedure ma molte regioni non hanno ancora aggiornato i sistemi).
Poiché oggi le aziende che operano in mercati competitivi e instabili, quando decidono di fare investimenti su nuovi prodotti/processi o sedi territoriali, non possono assumersi l’onere di sopportare una tale rigidità nel tempo e nell’organizzazione, esse preferiscono optare per contratti più flessibili. Quindi nella maggior parte dei casi l’occupazione incrementale (occupazione generata dalla crescita) non è assorbita dall’apprendistato ma dalle altre forme meno stabili di contratto di lavoro.

Perché gli attuali “precari” non verrebbero assorbiti dai contratti di apprendistato?

Le ultime statistiche, insieme all’esperienza quotidiana di chi lavora su questi fenomeni, dimostrano che l’attuale “stock” di lavoratori con contratti temporanei e parasubordinati verrebbe assorbito solo minimamente dal contratto di apprendistato ulteriormente incentivato. 
Come dimostrano diverse ricerche (fonte: lavoce.info) il 50 per cento di chi ha un contratto a tempo determinato ha più di 30 anni. Peggio ancora nel caso delle donne dove la media ha più di 35 anni. Si deduce che il contratto di apprendistato (che si applica solo a chi ha meno di 29 anni) non potrebbe riguardare questi precari.  Nel caso dei co.co.co, l'età mediana (vale a dire l'età al di sopra della quale troviamo il 50 per cento dei nuovi ingressi) è ancora più alta.

Infine bisogna notare come ormai lo “zoccolo duro” del precariato è costituito da lavoratori con esperienze di lavoro consolidate che hanno una storia professionale di numerosi contratti a tempo con diverse organizzazioni e datori di lavoro.

Una ipotesi di soluzione per le aziende in sviluppo e che creano occupazione e le persone in condizioni “precarie” dal punto di vista lavorativo

In base all’esperienza che si sta facendo del mercato del lavoro in Italia, una soluzione praticamente percorribile dei problemi di “incontro” tra domanda e offerta di lavoro “stabile”, potrebbe essere quella sviluppata dal disegno di legge Nerozzi e dai professori del sito lavoce.info e cioè del cosiddetto contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
Questa ipotesi di contratto è nella sostanza un contratto fin dal primo giorno a tempo indeterminato. Sono previste 2 fasi: la fase di inserimento e la fase di stabilità. Nella fase di inserimento (p.e. 3 anni), l'impresa ha la possibilità di interrompere il contratto di lavoro per ragioni economiche in cambio di un indennizzo economico che aumenta all’aumentare della durata del rapporto di lavoro.
In questo modo, le aziende che realmente sono in condizione di generare occupazione possono assumersi dei rischi di investimento “certi” eliminando invece tutti gli effetti dissuasivi generati dai rischi di contenzioso o comunque connessi a processi complessi di licenziamento collettivi o individuali.
Dall’altra parte l’introduzione di questo tipo di contratto (accompagnata da forme di disincentivo al ricorso di contratti a tempo determinato non stagionali) permetterebbe l’estensione agli ormai milioni di lavoratori precari indipendentemente dall’età e senza gravare sulle casse dello stato in quanto non è prevista decontribuzione né l’intervento di strutture burocratiche come gli uffici delle Province e degli enti locali.


sabato 11 febbraio 2012


Scrivere un curriculum 

(Wislawa Szymborska 1923 – 2012)

da "Vista con granello di sabbia"





Che cos'e' necessario?
E' necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si e' vissuto
e' bene che il curriculum sia breve.
E' d'obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di piu' chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all'estero.
L'appartenenza a un che, ma senza perche'.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l'orecchio in vista.
E' la sua forma che conta, non cio' che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.





Sono ormai anni che lavoro con curriculum. Il primo che ho letto è stato il mio, dopo la sua prima stesura. Lo conservo ancora provando nostalgia e anche un po’ di tenerezza per i sogni e le aspettative di quel primo candidato.

La poesia della Szymborska mi ha spiazzato già la prima volta che l’ho letta. I poeti e gli scrittori in genere riescono a cogliere e a descrivere i temi del lavoro molto meglio di qualsiasi testo di management o di consulenza.. specie perché riescono a superare le barriere che ognuno di noi elabora davanti a un testo scientifico. I testi di management trattano a-personalmente  di terze parti. Gli scrittori invece si rivolgono a te e diventi nolente protagonista.

“A prescindere da quanto si e' vissuto
e' bene che il curriculum sia breve.”



I cv sono diventati tutti di 2 pagine. Che ognuno di noi sia senza esperienza o un professionista consolidato, il principio è essere brevi ma non corti, sintetici ma non superficiali. Tonnellate di byte nei nostri database di persone indistinte dove è diventato difficile intuire la profondità dell’esperienza di ognuno e di conseguenza è necessario entrare nei particolari.. appuntarsi la data di nascita, la data del conseguimento del titolo di studi, etc. Ricostruire la vita di un candidato quasi come se si stesse riclassificando un bilancio. Ri-assemblarlo. Cogliendone le sfumature e gli aspetti celati.

“Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.”

I cv sono inadeguati per raccontare gli aspetti personali legati ad una esperienza di lavoro. Aver cambiato città per intraprendere una nuova attività lavorativa é altrettanto importante se non di più del tipo di lavoro svolto. L’esperienza di vita può esprimere volontà e attitudine per il cambiamento, capacità di autonomia e apertura mentale.

“Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.”


Dei rapporti familiari il cv non dice nulla o quasi. Eppure la cultura lavorativa in cui si è nati e cresciuti è importante. C’è molta differenza nel rapporto con il lavoro tra chi è vissuto in un ambiente di imprenditori, di artigiani, di liberi professionisti o di impiegati.

“L'appartenenza a un che, ma senza perche'.”

Ecco il limite di ogni cv e di tanti colloqui… fermarsi all’organizzazione e all’azienda a cui ognuno di noi ha appartenuto senza il perché, il motivo. Dedurre che per il solo fatto di essere stato in una organizzazione piuttosto che un’altra a prescindere dalla reale esperienza passata sia predittivo di un comportamento o peggio ancora di un’attitudine. Trasformare una vita in una lista di s.p.a. fredda e senza una storia da raccontare. Trascurare cosa c’è dietro un corso di studi frequentato… la passione per gli studi o la volontà di non deludere le aspettative dei genitori… la volontà di indipendenza o la fuga dalla propria città di provincia.

“Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.”

Quante volte ci siamo fatti ingannare dal prezzo di una candidatura rifugiandoci nella sicurezza del principio che se qualcun altro è disposto a pagare tanto allora vuol dire che vale…, o peggio ancora quante candidature stroncate per sempre dal principio secondo cui se non è ancora diventato manager o quadro allora non va bene…

“Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.”

Il cv può essere il primo di una lunga lista di errori. Una lista dove si privilegia la forma piuttosto che il contenuto. Dove soprattutto si guarda al passato illudendosi di prevedere il futuro. Sono descritte esperienze già fatte e non si guarda a quella che si sta per fare. Dopo alcuni colloqui da candidato ho pensato con amarezza ed ironia:con il mio quadro astrale probabilmente avrebbero capito di me molto di più.
Ho il timore che anche qualche candidato da me intervistato sia arrivato alla stessa conclusione.

venerdì 10 febbraio 2012



Intervista a Rosario Izzo su "Sistemi e Impresa" ottobre 2011 


Misurare. Un tema tanto caro alle organizzazioni strutturate, costrette tutti i giorni a dar ragione dei loro risultati di business davanti a vertici impazienti di commentare valanghe di numeri.
Un sistema che se fino a poco tempo fa era appannaggio di una funzione critica come Amministrazione Finanza e Controllo, oggi  è diventato un caposaldo anche per la funzione Risorse Umane.
L’applicazione di criteri di misurazione della performance in ambito HR si presenta come un metodo ancora in fase sperimentale. Possiamo davvero fidarci senza riserve di un sistema che misura dalla finanza alle risorse umane? La sua rigorosa base ingegneristica è davvero applicabile alle persone?
“Noi disponiamo di  un sistema di Performance Management che ci aiuta a valutare una ad una le 180  persone che fanno parte della squadra”, spiega Rosario Izzo, di responsabile Risorse Umane e Organizzazione del Gruppo Infocert, società IT specializzato nei servizi di Certificazione Digitale e Gestione dei documenti in modalità elettronica. “Il sistema che abbiamo architettato è nato esclusivamente a uso interno. Non facciamo attività di consulenza che preveda la misurazione delle performance presso i  clienti, anche se siamo in grado di implementare il nostro sistema presso altre aziende”.
I sistemi di misura delle performance si scontrano spesso nella pratica con le modalità di misurazione. Esistono posizioni che sono più facilmente misurabili perché descritte da Kpi oggettivabili, e posizioni più difficili da valutare. Immaginiamo la funzione commerciale: in questi casi la performance lavorativa è valutata in prima istanza da un numero magico, il fatturato. Un indicatore facilmente rintracciabile.
Adottare un sistema di Performance Management capillare all’interno della organizzazione è inoltre stimolo una potente leva per la diffusione di una ‘cultura della misurazione’ che, nel Paese dell’anti-meritocrazia per antonomasia (Italia), può rappresentare un primo passo verso il ‘ritorno dei cervelli’.

Misurare le persone
Nelle organizzazioni spesso si incontrano situazioni di partenza in cui non esistono molti elementi per misurare le performance. Anche in questi casi occorre iniziare a strutturare un sistema partendo da quei pochi elementi a disposizione, suggerisce il manager di Infocert.
“È anche vero – commenta Izzo – che bisogna conoscere bene ciò che si va a misurare. Talvolta occorre ammettere che esistono contesti organizzativi dove non ci sono gli strumenti per misurare. Oggi, per esempio, il tema della performance è un argomento ancora ‘di frontiera’ per il mondo HR, ma grazie ad alcuni pionieri comincia a farsi strada”.
Così, secondo Izzo, il tema della misurazione delle performance declinato sulla funzione Sviluppo Risorse Umane sta diventando di interesse comune. Il Performance Management si trasforma allora in uno strumento aziendale potente, usato per ‘remare’ insieme nella stessa direzione, per creare il tanto famigerato‘allineamento’. Ma non serve solo a questo. Negli attuali sistemi retributivi la parte denominata ‘variabile’ assume sempre più peso nella busta paga per middle e senior management. Si rende così  necessario individuare indicatori indispensabili per quantificare nel modo più oggettivo possibile la parte variabile dello stipendio.
In questo contesto il tema del Performance Management si intreccia con quello dello Sviluppo delle Competenze.
“È importante che le aziende investano su specifiche competenze, perché il rischio è che si generino gap difficili da colmare. La mappatura delle competenze diventa così un passaggio fondamentale per la predisposizione di un sistema di misurazione delle performance” sostiene Izzo. “Per una società come Infocert, che fonda il proprio business sulle competenze  professionali, il legame tra competenze e risultati è fondamentale. In questo caso un sistema di Performance Management è uno strumento indispensabile per la valutazione”.
La mappatura delle competenze si rivela quindi fondamentale per capire quali professionalità sono associate ai processi critici dell’azienda. In questo modo è possibile disporre di uno ‘standard’ qualitativo per allineare le performance di processo e, se sono state già mappate le competenze, si avrà a disposizione un’unità di misura per rilevare un gap. A partire dalle lacune di processo può iniziare così un percorso di sviluppo delle Risorse Umane. 


Intervista a Rosario Izzo (Libero del 20 gennaio 2012) 


Nonostante il momento possono permettersi di dire di “no”. Sono ricercati, desiderati, preziosi. Non è una categoria, sono i laureati in informatica. Come racconta a LiberoLavoro Rosario Izzo, direttore delle risorse umane di Infocert e della sua controllata Klever. La società progetta, sviluppa e fornisce soluzioni informatiche per imprese, amministrazioni e professionisti. Dalla posta certificata al settore della gestione documentale, il business a cui si dedicano queste aziende è in crescita tanto che nel 2011 il fatturato della sola InfoCert è cresciuto <del 30 per cento>.

Izzo, con il fatturato è cresciuta anche l’occupazione aziendale? L’Ict è un settore che persino oggi permette di assumere?

Consideri che il 50 per cento dei nostri dipendenti ha un’anzianità aziendale inferiore ai 3 anni. Oggi siamo in 180, tra Infocert e Klever. La nostra è stata una crescita esponenziale, veloce. Solo nel 2011 la nostra popolazione interna è cresciuta del 15 per cento nelle sedi di Roma, Milano e Padova.

Ora vi siete fermati?

No, anzi. Nello specifico siamo alla ricerca di circa 5 professionisti per la sede Milanese.

Quali requisiti ha il vostro candidato ideale?

Giovane, laureato in informatica, ingegneria informatica o comunque lauree scientifiche. Ultimamente abbiamo scoperto con successo le potenzialità nel nostro campo di chi ha studiato matematica o fisica a livello universitario.

Primeggia chi ha ottenuto il voto più alto?

Non solo. Il voto è predittivo dell’impegno che la persona è in grado di spendere. Ma soprattutto è importante la motivazione. Il neolaureato spesso vuole fare da subito il project manager, non programmare. La programmazione è un lavoro impegnativo, metodico, preciso. E in alcuni casi il giovane non è certo di volersi dedicare a un lavoro come questo, pur importantissimo.

Eppure il momento non sembrerebbe il più opportuno per rifiutare un lavoro...

Il laureato in materie informatiche sa di aver più possibilità di scelta di giovani della sua età. I giovani che si dedicano a questi temi sono pochi e molto difficili da reperire sul mercato, perché molto richiesti. Per questo stiamo effettuando una forte campagna di comunicazione sui social network come Twitter e Linkedin, così da farci conoscere.

Di quali contratti vi avvalete in fase di assunzione?

Al termine del tirocinio, o assumiamo a tempo determinato per poi trasformarlo a indeterminato dopo 12 mesi o attraverso lo strumento dell’apprendistato di 36 mesi.

Come giudica quest’ultimo?

L’apprendistato va sicuramente migliorato. La rigidità principale contro la quale ci scontriamo è che non è possibile interrompere il percorso per ragioni organizzative prima dei tre anni. Il nostro è un business tale che se si decide di investire in una data tecnologia è necessario almeno nella fase iniziale restare flessibili. Quando si fa innovazione non è possibile avere certezze sulla buona riuscita di questo investimento di conseguenza se per sviluppare la tecnologia non posso che affidarmi a giovani apprendisti, rifletto due volte prima di iniziare, perché so che per tre anni avrò una struttura rigida, anche se l’investimento non dovesse andare a buon fine.

Quei tre anni rappresentano una tutela...

Certo, giusto. Ma perché non pensare realmente a contratti in due fasi?  Una prima fase per esempio di 36 mesi in cui è possibile risolvere il contratto con un congruo indennizzo e una seconda fase classica a tempo indeterminato. Non penso che si vada incontro a una precarizzazione ma al contrario a una reale flessibilità. L’apprendistato oggi è perfettamente applicabile solo a grandi aziende. Come Fiat, dove ho lavorato in passato. Ma non è tarato su aziende medie e in forte crescita come la nostra.