mercoledì 22 agosto 2012

How to transform a decadent organization into a competitive one


In my opinion one of the current hardest HR challenges is to support an organization in its transformation process from a declining condition into a competitive one.
During a macro-economic crisis period, the following declining company models may be observed:

-          Former market leader
It’s not unusual to meet declining firms which were leaders before. It often happens that something changed dramatically in the market and they were not able to re-invent their competitive advantage.

-          Lack of leadership in the Management team
In a critical situation Management may not have enough leadership to move out of the crisis. This usually happens because when you’re part of a problem it’s really hard to be able to find the solution.

-          Low  level of people engagement
Engagement level in a crisis is usually very low. Although it’s difficult to understand the relationship between low performance and low engagement, a lot of scientific researches demonstrate the connection.

-          Employees are afraid of losing their jobs
Employees’ highest worry is to lose their job. This creates a vicious circle since worries about job produce low engagement, which finally results in a performance decrease, reinforcing the crisis.

-          High level of unionization
In a crisis situation or in a static firm the unionization level tends to grow. This is another vicious circle because unions are typically focused on protecting employment instead than creating the basis to move out of the crisis. In addition unions prefer to negotiate contract clauses for all the employees, thus neglecting the individual efforts.

-          Low level of meritocracy
The level of meritocracy in a declining firm is usually low. You can find different causes to this phenomenon: first of all the HR budget shortage; furthermore you can see that when cost reduction actions are implemented, it is impossible to provide incentives to individuals by means of promotions or special rewards.

-          Low empowerment
In this situation, people are only focused on their tasks with no interest for functional processes or common targets. This is explained by a corporate culture that avoids individual initiatives instead of stimulating personal efforts.

-          Company targets unknown to employees
In many unsuccessful companies it's common to find a lack of communication about company strategy and targets. Employees are not able to align themselves to any strategy or assumption simply because they don’t know anything. In many firms the strategy is well known and shared within Management team, but the drill down process is absent or does not work properly.


-          Inadequate compensation system
The compensation systems is based on variables which are not connected to results, depending only on the role and on contract type. Performance management is absent or not very significant.  

For a HR manager who wants to face a static or a crisis situation I suggest he/she starts from a methodology which was originally developed by Tushman and O’Reilly and described in the book Winning Through Innovation [1].
In my experience this methodology helps HR directors and managing directors to identify the most important actions in order to transform an organization. In their book, Tushman and O’Reilly introduce the so called “congruence model”, aimed at aligning people, culture and formal organization to the tasks required by the strategic goals which have been set.
In many cases an organization is not able to achieve its strategic goals because congruence between the goals and the HR dimensions does not work properly. The HR manager mission is to identify and consequently to implement the corrective actions aiming at re-establishing the new congruence.

The methodology I suggest is based on four fundamental drivers:
·         Critical Tasks and workflows to be accomplished;
·         Culture (policies, values, informal communication networks);
·         Formal Organization (structure, system, rewards);
·         People (competencies, motivation, compensation and commitment).
The alignment or congruence between these items must be successful in the short term, while incongruence between them is a likely cause of performance gaps.






The first step is to identify the incongruence between corporate strategy and critical tasks on the one hand, and the other dimensions (people, culture, organization) on the other hand.
The second step is to set the corrective actions to change culture, organization and people and to create a congruent system.
The final step is planning and implementing these actions.
The methodology is simple but not ordinary. It’s not easy to implement the identified actions because they concern the deep organization characteristics. It is important to communicate the sense of urgency and to be persistent.


[1]. Tushman, Michael, and Charles A. O'Reilly. Winning through Innovation: a Practical Guide to Leading Organizational Change and Renewal. Boston, MA: Harvard Business School, 2002



venerdì 22 giugno 2012

Perchè dobbiamo abbandonare l'uso del CV

Credo sia arrivato il momento di mettere seriamente in discussione il Curriculum Vitae come strumento adeguato a presentare professionalmente una persona. Non mi riferisco al modalità o al formato (cartaceo, facecv, social network, videocv, formato europeo, etc) ma al modello culturale e professionale di riferimento del CV. Il CV è una forzatura della realtà, una visione distorta e strabica di una persona: di fatti, proprio come nello strabismo, il CV porta alla perdita di profondità, forza le distanze facendo apparire oggetti lontani o vicini quando non lo sono nella realtà.
Il CV è il portato di una visione dello sviluppo professionale artificiosa, conseguente alla applicazione dei principi del fordismo anche ai processi umani. Di fatto i CV sono sequenziali, non ammettono incoerenze nemmeno apparenti. Non è ammissibile un CV senza miglioramenti né ampliamenti di responsabilità nel corso del tempo. È in effetti la trasposizione economicistica dello sviluppo progressivo e permanente allo sviluppo professionale. Il cv non ammette ripensamenti né distrazioni, non è possibile che qualcuno possa ritornare sui propri passi per approfondire una esperienza o semplicemente per ricominciare. Non c’è spazio per la sperimentazione perché sarebbe letta negativamente come discontinuità. Il CV misura il tempo che scorre solo in avanti e che appare intrinsecamente come una corsa in velocità: le tappe vanno percorse il più velocemente possibile.
Chi “lavora con le persone” allora deve fare attenzione seriamente al “mito distorto” del CV. Esso è il mito che porta ad assumere o a far crescere manager con cv eccezionali e iper-specializzati perdendo di vista che la specializzazione è un sapere “povero” se confrontato alle capacità. È lo stesso mito che privilegia CV “veloci” che hanno bruciato tutte le tappe ma assolutamente inesperti perché l’esperienza, ce ne siamo dimenticati, non può prescindere dal tempo e dalla riflessione. L’esperienza è un processo di accumulazione e non un percorso di velocità.
Il mito distorto del cv è diventato tale perché basandosi sulla illusione della razionalità intrinseca degli strumenti ha fatto perdere di vista il giudizio sul merito e sui fini. Di fatti il cv strabicamente riduce tutta la complessità delle aspirazioni e delle motivazioni personali al solo percorso di carriera. Svilisce le relazioni umane, i valori personali e i sentimenti. In ultima istanza attua una netta separazione tra vita e professione, per questo induce in errore perché apre il fronte alla rivalsa che la vita personale con tutto il suo bagaglio di valori, comportamenti, aspirazioni, sta già preparando subdolamente nei confronti della organizzazione.
 

Per superare i limiti del cv bisogna sostituirlo con la storia professionale
Nella storia professionale devono trovare spazio i perché, i come e i “con chi”. 
I soggetti devono descriversi con percorsi reali e quindi complessi. Descrivendo gli andirivieni, i ripensamenti e quindi i percorsi circolari. 
Questo perché la maturità in generale, quella professionale non fa eccezione, si acquisisce spesso ritornando sui propri passi, e le contraddizioni non sono un tabù (come nel cv) e ritornano ad essere il fattore scatenante della crescita umana.
 

Il cv deve essere messo in discussione perché le aziende oggi hanno bisogno di persone con caratteristiche tali per cui il modello cv non è più lo strumento confacente. 
 
Le organizzazioni cercano persone in grado di integrarsi, persone ambiziose che siano disposte a sposare gli obiettivi aziendali e che si sviluppano insieme al proprio team da cui la propria carriera non prescinde. 


Persone di cui è diventato più rilevante quello che pensano rispetto a quello che sanno fare.

giovedì 10 maggio 2012

Corporate Wellness: perchè alle aziende conviene investire sullo sviluppo delle persone


Perché un’azienda dovrebbe occuparsi dello sviluppo personale dei propri dipendenti? Lo sviluppo etico, civile, culturale e fisico ed in generale il benessere delle persone è una gran bella cosa… ma perché dovrebbe interessare ai managers delle aziende? La risposta è perché gli conviene. Di fatti i programmi che molte aziende innovative stanno introducendo all’interno delle proprie organizzazioni non sono semplicemente un fenomeno di moda oppure l’attribuzione di un utile benefit accessorio e temporaneo per i propri dipendenti. Questi programmi sono l’applicazione di strategie di “egoismo lungimirante” (come lo chiamerebbe Pierluigi Celli) in quanto sono investimenti con elevato ritorno in termini di produttività e di riduzione dei costi.
Approfondiamo l’argomento….
Le aziende normali attuano programmi di formazione e sviluppo su contenuti che servono al lavoratore per il ruolo che ricopre o che andrà a ricoprire. Che sia training tecnico e/o manageriale (nei piani formativi ho visto definizioni quali formazione di ruolo e formazione tecnica) il messaggio abbastanza esplicito è: io azienda investo risorse e il tuo tempo perché così posso “utilizzarti” meglio e aumentare la tua produttività. Anche la formazione linguistica è somministrata con lo stesso criterio di ruolo. I piani di sviluppo manageriale hanno lo stesso mindset: l’azienda sviluppa la tua leadership e le tue capacità gestionali perché tu sia uno strumento gestionale più efficace e funzionale agli obiettivi aziendali.
Siamo chiari…  va tutto bene… a trovarle aziende che investono sullo sviluppo del loro capitale umano! Ma oggi è sufficiente? Ma perché allora ci sono aziende che spendono soldi per aiutare a smettere di fumare o per esempio offrono programmi di benessere o sportivi?
Il motivo è che il contratto psicologico che lega organizzazioni e lavoratori sta cambiando e lo scenario in cui operano le aziende, in particolare quelle ad alto contenuto tecnologico, ha reso difficile se non impossibile a causa della permanente incertezza, pianificare i contenuti di sviluppo e formazione su cui investire.
Ecco allora che i programmi di sviluppo personale e di benessere nell’ambiente di lavoro hanno l’effetto di aumentare sensibilmente la produttività del personale, l’allineamento, l’attaccamento all’’azienda, ridurre il turn-over, ridurre l’assenteismo e i comportamenti contro-dipendenti, aumentare le capacità negoziali e di sviluppo della innovazione.
Non si tratta di intuizioni senza ancora fondamento… ci sono infatti già ricerche quantitative autorevoli che dimostrano il ROI di questi programmi (cfr Harvard Business Review gennaio/febbraio 2011 per esempio).
Il contratto psicologico che lega lavoratore e azienda è cambiato nel senso che non è più basato semplicemente su uno scambio tra prestazione e retribuzione ma è diventato una relazione complessa biunivoca di fiducia, rispetto di principi etici, di coinvolgimento completo della persona e di visione del futuro. In questo senso i componenti di una organizzazione si aspettano che l’azienda investa su tutta la persona nel suo complesso (capacità intellettuali, gestionali, linguistiche, relazionali, fisiche etc.) assumendo anche un ruolo proattivo e propositivo sul proprio percorso di crescita. Ecco allora che un investimento aziendale su questi elementi ha un ritorno molto elevato in termini di motivazione, partecipazione e attaccamento rispetto agli investimenti formativi “classici”.
Perché questi programmi abbiano successo bisogna tener conto di alcuni fattori critici:
1. bisogna che ci sia coinvolgimento della leadership a vari livelli: è importante che il mangement a tutti i livelli scelga di partecipare ai programmi e sponsorizzi internamente l’iniziativa. Senza il supporto del management o addirittura una bocciatura da parte dei “capi”, questi programmi potrebbero diventare addirittura un boomerang negativo dimostrando lo scollamento tra i membri della linea gerarchica.
2. è necessario che ci sia coerenza tra i programmi prescelti con l’identità e la cultura dell’azienda: se l’azienda propone iniziative molto distanti dalla cultura aziendale il rischio è che queste vengano viste solo come una operazione di facciata. È anche vero che i cambiamenti culturali all’interno delle organizzazioni avvengono lentamente e che quindi bisogna tener conto comunque di un ritardo fisiologico…
3. bisogna che i programmi abbiano una diffusione generalizzata: perché vengano percepiti di valore è importante che l’azienda renda disponibile la partecipazione a chiunque voglia aderire senza segmentazione di ruolo, di gerarchia o altro.
4. alta qualità: i programmi devono essere percepiti come un investimento di valore e non come un surplus temporaneo. Quindi bisogna scegliere partner e fornitori di alto livello.
5. comunicazione efficace: i programmi devo essere accompagnati da una comunicazione interna permeante ed efficace. Assolutamente necessaria è la possibilità da parte di coloro che hanno aderito di avere uno spazio di discussione aperto (p.e. sulla intranet) dove commentare e coinvolgere tutto il resto della azienda.










martedì 13 marzo 2012

Organizzazione virale


L’evoluzione del paradigma competitivo unitamente allo sviluppo di nuove tipologie di competenze manageriali porta al superamento del modello organizzativo verticistico e piramidale a cui siamo abituati da più di un secolo e l’affermarsi parallelamente di un nuovo modello organizzativo che si potrebbe definire “virale”. L’organizzazione virale contraddistingue le aziende fortemente orientate al mercato, flessibili, e in particolare di medie dimensioni.
 Le organizzazioni devono oggi operare in uno stato:
·         di crisi permanente;
·         di cambiamenti costanti e repentini.
Come affermano Foster e Kaplan in Creative Distruction 2001 “le aziende per sopravvivere hanno bisogno continuamente di reinventarsi, di cannibalizzare attivamente i propri prodotti e i propri modelli operativi”. 
In un contesto di questo tipo l’organizzazione gerarchica costituisce una forma troppo rigida per poter competere efficacemente. Ecco allora che si costituiscono forme organizzative basate su sfere di influenza e non per organigramma. Nell’organizzazione virale le responsabilità sono definite ma le gerarchie sono multidimensionali. Le responsabilità e le decisioni connesse non riportano attraverso i vari rami aziendali al capo azienda ma a seconda delle competenze e delle esperienze possono concentrarsi in punti diversi.
L’organizzazione virale come modello sociologico è associabile ad una community (ma anche al clan/tribù antropologica) dove in un sistema integrato convivono diverse sfere di influenza, in contrapposizione al modello verticistico di tipo militare tipico dell’organizzazione gerarchica.
Il modello virale si sviluppa come risposta al nuovo ambiente competitivo grazie anche all’emergere di nuovi profili manageriali, nuove competenze e nuovi stili di leadership.
Infatti all’interno di queste nuove organizzazioni è possibile osservare l’affermarsi di tanti profili “ibridi” che associano funzioni diverse (commerciale + HR, produzione + finance, etc.) basati su ruoli orizzontali di processo e non di funzione, con competenze integrate impensabili all’interno delle organizzazioni gerarchiche. Inoltre nell’ambito delle nuove competenze manageriali si affermano prioritariamente le capacità di costituire alleanze che vanno oltre i rapporti lavorativi, capacità che privilegiano il fare gruppo a discapito della competizione interna. 
Per ciò che riguarda il modello di leadership, le nuove organizzazioni sviluppano stili di leadership contraddistinti dalla capacità di gestire l’incertezza, di valutare  e calcolare rischi con scarse informazioni e di prendere decisioni in situazioni con scarsità di tempo.
Le organizzazioni virali favoriscono il risk taking perché creano rapporti solidali tra i membri e attraverso le alleanze gestiscono anche i fallimenti temporanei. Esse favoriscono percorsi di carriera diversi rispetto al passato e presuppongono processi di recruiting e selezione  coerenti.
Le organizzazioni virali durante la selezione, dopo aver verificato le competenze tecniche, privilegiano i candidati che maggiormente si sposano con la cultura del gruppo e che potenzialmente siano in grado di sviluppare senso di appartenenza. In queste organizzazioni si può scientemente rinunciare ai candidati con un cv migliore perché è il gruppo che privilegiano e non il singolo. I cv più interessanti sono quelli discontinui che mostrano apparenti salti da un ruolo ad un altro e che possono indicare capacità di adattamento e sincretismo di mestieri. Le persone più adatte sono quelle che dimostrano di esser più inclini a imparare dagli altri.
Anche i percorsi di carriera sembrano apparentemente discontinui. Inoltre, queste organizzazioni, privilegiando le responsabilità, l’influenza e le performance a discapito della gerarchia, disinnescano tutti gli effetti negativi delle organizzazioni gerarchiche quali la esclusiva crescita verticale, il legame casella organizzativa con la retribuzione e non ultima la sindrome di Peter.

martedì 28 febbraio 2012

Feedback e responsabilità positiva


Nei primi mesi di ogni anno sono alle prese con i cicli di chiusura e valutazione delle performance e di conseguenza con i dubbi e le perplessità sincere dei mie colleghi a cui spetta il compito di “restituire” la valutazione annuale ai propri collaboratori.
Ogni volta ci chiediamo quale può essere il feedback più efficace. L’esperienza ci ha insegnato che il “segno” (positivo o negativo) del feedback non ha esiti scontati. Un feedback positivo a volte ha lasciato i collaboratori un po’ delusi mentre un feedback “correttivo” spesso peggiora la situazione.
I miei colleghi ed io, siamo riusciti, con l’esperienza e il conforto di un po’ di letteratura scientifica, a tracciare alcune indicazioni pratiche e orientamenti utili.
La prima osservazione riguarda la tipologia di lavoro e non il “carattere” della persona come magari si può pensare intuitivamente…
Le persone che fanno lavori molto regolamentati e proceduralizzati come anche coloro che hanno contratti temporanei sono molto “sensibili” a feedback negativi/correttivi. Questa tipologia di feedback, quando necessaria, riesce ad avere quindi effetti significativi sulla performance e risulta essere in genere efficace.
Nei casi invece di tipologie di attività “creative” nel senso di lavori in cui è richiesta la capacità della persona di scegliere tra diverse opzioni e dove quindi c’è un investimento personale, un feedback negativo anche se giustificato può avere effetti controproducenti. Invece in questi casi un feedback positivo ad una persona che ha avuto rendimenti positivi riesce ad alzare ancora ulteriormente il livello di performance o comunque dell’impegno.
Un effetto simile si può avere in considerazione della motivazione al lavoro del collaboratore. Nei casi di una prevalente motivazione legata alla remunerazione, i feedback negativi sono sensibilmente più efficaci mentre quelli positivi sono neutrali. Inversamente nei casi di motivazione prevalente nella soddisfazione personale i feedback positivi aumentano ancora di più la prestazione mentre quelli negativi possono ingenerare comportamenti ancora più negativi.
La regola generale da seguire empiricamente secondo la mia esperienza quindi è la seguente:
step 1: per prima cosa individuare la situazione organizzativa/gestionale in cui si trova il collaboratore e quindi stabilire se esso si trova nella area sensibile a feed-back positivi o a quelli negativi (motivazione, contratto di lavoro, valori, contenuti del lavoro);
step 2: se ci si trova in un’area sensibile al feedback negativo allora è consigliabile evitare aspetti positivi e concentrarsi sul bicchiere mezzo vuoto (che cosa non è andato bene, che cosa va corretto, casi negativi);
step 3: se ci si trova in un’area sensibile al feedback positivo allora è consigliabile lasciar perdere i gap e gli aspetti negativi e concentrasi sui punti forza. In questi casi se ci si trova di fronte ad una performance negativa è preferibile non insistere su azioni di miglioramento perché avrebbero molto probabilmente un effetto controproducente.
A conforto di questa esperienza, ho trovato molto stimolanti gli studi sviluppati dal prof. Avi Kluger sulla positive psychology e in particolare le metodologie di FFI Feedforward Interview.
In sintesi la proposta dell’FFI consiste nel rinunciare al classico colloquio di feedback basato sui gap di competenze e sulle azioni di miglioramento da attuare per aumentare le performance e di concentrarsi invece sui punti di forza da potenziare e sulle esperienze positive e di successo.

Il feedback di valutazione è nella sostanza uno strumento da maneggiare con molta attenzione. Se non usato bene può avere effetti molto negativi sulle relazioni professionali e sul clima aziendale. In situazioni dubbie e critiche io personalmente consiglio come estrema ratio di evitarlo.

I difetti purtroppo non si cambiano… possono essere solo o eliminati oppure sterilizzati.  

L’energia spesa per lavorare sui difetti è quasi una perdita di tempo… è meglio puntare sulle positività e coprirsi dalle debolezze.

Per chi è interessato ecco alcuni riferimenti: http://www.feedforward.co.il/about.aspx

martedì 14 febbraio 2012

Perché il potenziamento dell’apprendistato è insufficiente


Nelle ultime settimane sembra che sul tavolo negoziale tra associazioni datoriali, governo e sindacati si stia puntando sul potenziamento del contratto di apprendistato al fine di una sua maggiore e più capillare diffusione e per ridurre il ricorso a contratti “meno stabili” nelle assunzioni di nuovi lavoratori.
In realtà il rafforzamento dell’apprendistato è un’azione insufficiente sia per incentivare le aziende ad aumentare il numero di occupati sia per ridurre il numero dei lavoratori che ad oggi hanno contratti di collaborazione e/o a tempo determinato e quindi precari.
Perché il contratto di apprendistato non è un vero incentivo per le aziende a nuove assunzioni
Il contratto di apprendistato è un contratto temporalmente rigido. Non può essere interrotto (tranne che per giusta causa) prima della fine del percorso formativo. Per lavoratori con un alto livello di istruzione il periodo “rigido” è normalmente di 36 mesi. Durante il periodo di formazione non è possibile modificare la mansione del lavoratore se ragioni produttive/organizzative lo necessitano.
Durante il contratto di apprendistato il lavoratore guadagna meno di un altro lavoratore “normale” che fa il suo stesso lavoro e l’azienda ha un forte sconto (fino al 100%) delle spese contributive.
Il contratto di apprendistato è governato dalla contrattazione collettiva e gestito dalla Province territorialmente competenti. Ciò significa che le aziende possono utilizzare il contratto di apprendistato solo se previsto dalla contrattazione e soprattutto devono seguire iter autorizzativi a volte diversi a seconda della provincia in cui si intende attivarli (da circa 10 mesi il MLPS ha emanato una circolare per l'accentramento delle procedure ma molte regioni non hanno ancora aggiornato i sistemi).
Poiché oggi le aziende che operano in mercati competitivi e instabili, quando decidono di fare investimenti su nuovi prodotti/processi o sedi territoriali, non possono assumersi l’onere di sopportare una tale rigidità nel tempo e nell’organizzazione, esse preferiscono optare per contratti più flessibili. Quindi nella maggior parte dei casi l’occupazione incrementale (occupazione generata dalla crescita) non è assorbita dall’apprendistato ma dalle altre forme meno stabili di contratto di lavoro.

Perché gli attuali “precari” non verrebbero assorbiti dai contratti di apprendistato?

Le ultime statistiche, insieme all’esperienza quotidiana di chi lavora su questi fenomeni, dimostrano che l’attuale “stock” di lavoratori con contratti temporanei e parasubordinati verrebbe assorbito solo minimamente dal contratto di apprendistato ulteriormente incentivato. 
Come dimostrano diverse ricerche (fonte: lavoce.info) il 50 per cento di chi ha un contratto a tempo determinato ha più di 30 anni. Peggio ancora nel caso delle donne dove la media ha più di 35 anni. Si deduce che il contratto di apprendistato (che si applica solo a chi ha meno di 29 anni) non potrebbe riguardare questi precari.  Nel caso dei co.co.co, l'età mediana (vale a dire l'età al di sopra della quale troviamo il 50 per cento dei nuovi ingressi) è ancora più alta.

Infine bisogna notare come ormai lo “zoccolo duro” del precariato è costituito da lavoratori con esperienze di lavoro consolidate che hanno una storia professionale di numerosi contratti a tempo con diverse organizzazioni e datori di lavoro.

Una ipotesi di soluzione per le aziende in sviluppo e che creano occupazione e le persone in condizioni “precarie” dal punto di vista lavorativo

In base all’esperienza che si sta facendo del mercato del lavoro in Italia, una soluzione praticamente percorribile dei problemi di “incontro” tra domanda e offerta di lavoro “stabile”, potrebbe essere quella sviluppata dal disegno di legge Nerozzi e dai professori del sito lavoce.info e cioè del cosiddetto contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
Questa ipotesi di contratto è nella sostanza un contratto fin dal primo giorno a tempo indeterminato. Sono previste 2 fasi: la fase di inserimento e la fase di stabilità. Nella fase di inserimento (p.e. 3 anni), l'impresa ha la possibilità di interrompere il contratto di lavoro per ragioni economiche in cambio di un indennizzo economico che aumenta all’aumentare della durata del rapporto di lavoro.
In questo modo, le aziende che realmente sono in condizione di generare occupazione possono assumersi dei rischi di investimento “certi” eliminando invece tutti gli effetti dissuasivi generati dai rischi di contenzioso o comunque connessi a processi complessi di licenziamento collettivi o individuali.
Dall’altra parte l’introduzione di questo tipo di contratto (accompagnata da forme di disincentivo al ricorso di contratti a tempo determinato non stagionali) permetterebbe l’estensione agli ormai milioni di lavoratori precari indipendentemente dall’età e senza gravare sulle casse dello stato in quanto non è prevista decontribuzione né l’intervento di strutture burocratiche come gli uffici delle Province e degli enti locali.


sabato 11 febbraio 2012


Scrivere un curriculum 

(Wislawa Szymborska 1923 – 2012)

da "Vista con granello di sabbia"





Che cos'e' necessario?
E' necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si e' vissuto
e' bene che il curriculum sia breve.
E' d'obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di piu' chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all'estero.
L'appartenenza a un che, ma senza perche'.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l'orecchio in vista.
E' la sua forma che conta, non cio' che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.





Sono ormai anni che lavoro con curriculum. Il primo che ho letto è stato il mio, dopo la sua prima stesura. Lo conservo ancora provando nostalgia e anche un po’ di tenerezza per i sogni e le aspettative di quel primo candidato.

La poesia della Szymborska mi ha spiazzato già la prima volta che l’ho letta. I poeti e gli scrittori in genere riescono a cogliere e a descrivere i temi del lavoro molto meglio di qualsiasi testo di management o di consulenza.. specie perché riescono a superare le barriere che ognuno di noi elabora davanti a un testo scientifico. I testi di management trattano a-personalmente  di terze parti. Gli scrittori invece si rivolgono a te e diventi nolente protagonista.

“A prescindere da quanto si e' vissuto
e' bene che il curriculum sia breve.”



I cv sono diventati tutti di 2 pagine. Che ognuno di noi sia senza esperienza o un professionista consolidato, il principio è essere brevi ma non corti, sintetici ma non superficiali. Tonnellate di byte nei nostri database di persone indistinte dove è diventato difficile intuire la profondità dell’esperienza di ognuno e di conseguenza è necessario entrare nei particolari.. appuntarsi la data di nascita, la data del conseguimento del titolo di studi, etc. Ricostruire la vita di un candidato quasi come se si stesse riclassificando un bilancio. Ri-assemblarlo. Cogliendone le sfumature e gli aspetti celati.

“Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.”

I cv sono inadeguati per raccontare gli aspetti personali legati ad una esperienza di lavoro. Aver cambiato città per intraprendere una nuova attività lavorativa é altrettanto importante se non di più del tipo di lavoro svolto. L’esperienza di vita può esprimere volontà e attitudine per il cambiamento, capacità di autonomia e apertura mentale.

“Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.”


Dei rapporti familiari il cv non dice nulla o quasi. Eppure la cultura lavorativa in cui si è nati e cresciuti è importante. C’è molta differenza nel rapporto con il lavoro tra chi è vissuto in un ambiente di imprenditori, di artigiani, di liberi professionisti o di impiegati.

“L'appartenenza a un che, ma senza perche'.”

Ecco il limite di ogni cv e di tanti colloqui… fermarsi all’organizzazione e all’azienda a cui ognuno di noi ha appartenuto senza il perché, il motivo. Dedurre che per il solo fatto di essere stato in una organizzazione piuttosto che un’altra a prescindere dalla reale esperienza passata sia predittivo di un comportamento o peggio ancora di un’attitudine. Trasformare una vita in una lista di s.p.a. fredda e senza una storia da raccontare. Trascurare cosa c’è dietro un corso di studi frequentato… la passione per gli studi o la volontà di non deludere le aspettative dei genitori… la volontà di indipendenza o la fuga dalla propria città di provincia.

“Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.”

Quante volte ci siamo fatti ingannare dal prezzo di una candidatura rifugiandoci nella sicurezza del principio che se qualcun altro è disposto a pagare tanto allora vuol dire che vale…, o peggio ancora quante candidature stroncate per sempre dal principio secondo cui se non è ancora diventato manager o quadro allora non va bene…

“Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.”

Il cv può essere il primo di una lunga lista di errori. Una lista dove si privilegia la forma piuttosto che il contenuto. Dove soprattutto si guarda al passato illudendosi di prevedere il futuro. Sono descritte esperienze già fatte e non si guarda a quella che si sta per fare. Dopo alcuni colloqui da candidato ho pensato con amarezza ed ironia:con il mio quadro astrale probabilmente avrebbero capito di me molto di più.
Ho il timore che anche qualche candidato da me intervistato sia arrivato alla stessa conclusione.

venerdì 10 febbraio 2012



Intervista a Rosario Izzo su "Sistemi e Impresa" ottobre 2011 


Misurare. Un tema tanto caro alle organizzazioni strutturate, costrette tutti i giorni a dar ragione dei loro risultati di business davanti a vertici impazienti di commentare valanghe di numeri.
Un sistema che se fino a poco tempo fa era appannaggio di una funzione critica come Amministrazione Finanza e Controllo, oggi  è diventato un caposaldo anche per la funzione Risorse Umane.
L’applicazione di criteri di misurazione della performance in ambito HR si presenta come un metodo ancora in fase sperimentale. Possiamo davvero fidarci senza riserve di un sistema che misura dalla finanza alle risorse umane? La sua rigorosa base ingegneristica è davvero applicabile alle persone?
“Noi disponiamo di  un sistema di Performance Management che ci aiuta a valutare una ad una le 180  persone che fanno parte della squadra”, spiega Rosario Izzo, di responsabile Risorse Umane e Organizzazione del Gruppo Infocert, società IT specializzato nei servizi di Certificazione Digitale e Gestione dei documenti in modalità elettronica. “Il sistema che abbiamo architettato è nato esclusivamente a uso interno. Non facciamo attività di consulenza che preveda la misurazione delle performance presso i  clienti, anche se siamo in grado di implementare il nostro sistema presso altre aziende”.
I sistemi di misura delle performance si scontrano spesso nella pratica con le modalità di misurazione. Esistono posizioni che sono più facilmente misurabili perché descritte da Kpi oggettivabili, e posizioni più difficili da valutare. Immaginiamo la funzione commerciale: in questi casi la performance lavorativa è valutata in prima istanza da un numero magico, il fatturato. Un indicatore facilmente rintracciabile.
Adottare un sistema di Performance Management capillare all’interno della organizzazione è inoltre stimolo una potente leva per la diffusione di una ‘cultura della misurazione’ che, nel Paese dell’anti-meritocrazia per antonomasia (Italia), può rappresentare un primo passo verso il ‘ritorno dei cervelli’.

Misurare le persone
Nelle organizzazioni spesso si incontrano situazioni di partenza in cui non esistono molti elementi per misurare le performance. Anche in questi casi occorre iniziare a strutturare un sistema partendo da quei pochi elementi a disposizione, suggerisce il manager di Infocert.
“È anche vero – commenta Izzo – che bisogna conoscere bene ciò che si va a misurare. Talvolta occorre ammettere che esistono contesti organizzativi dove non ci sono gli strumenti per misurare. Oggi, per esempio, il tema della performance è un argomento ancora ‘di frontiera’ per il mondo HR, ma grazie ad alcuni pionieri comincia a farsi strada”.
Così, secondo Izzo, il tema della misurazione delle performance declinato sulla funzione Sviluppo Risorse Umane sta diventando di interesse comune. Il Performance Management si trasforma allora in uno strumento aziendale potente, usato per ‘remare’ insieme nella stessa direzione, per creare il tanto famigerato‘allineamento’. Ma non serve solo a questo. Negli attuali sistemi retributivi la parte denominata ‘variabile’ assume sempre più peso nella busta paga per middle e senior management. Si rende così  necessario individuare indicatori indispensabili per quantificare nel modo più oggettivo possibile la parte variabile dello stipendio.
In questo contesto il tema del Performance Management si intreccia con quello dello Sviluppo delle Competenze.
“È importante che le aziende investano su specifiche competenze, perché il rischio è che si generino gap difficili da colmare. La mappatura delle competenze diventa così un passaggio fondamentale per la predisposizione di un sistema di misurazione delle performance” sostiene Izzo. “Per una società come Infocert, che fonda il proprio business sulle competenze  professionali, il legame tra competenze e risultati è fondamentale. In questo caso un sistema di Performance Management è uno strumento indispensabile per la valutazione”.
La mappatura delle competenze si rivela quindi fondamentale per capire quali professionalità sono associate ai processi critici dell’azienda. In questo modo è possibile disporre di uno ‘standard’ qualitativo per allineare le performance di processo e, se sono state già mappate le competenze, si avrà a disposizione un’unità di misura per rilevare un gap. A partire dalle lacune di processo può iniziare così un percorso di sviluppo delle Risorse Umane. 


Intervista a Rosario Izzo (Libero del 20 gennaio 2012) 


Nonostante il momento possono permettersi di dire di “no”. Sono ricercati, desiderati, preziosi. Non è una categoria, sono i laureati in informatica. Come racconta a LiberoLavoro Rosario Izzo, direttore delle risorse umane di Infocert e della sua controllata Klever. La società progetta, sviluppa e fornisce soluzioni informatiche per imprese, amministrazioni e professionisti. Dalla posta certificata al settore della gestione documentale, il business a cui si dedicano queste aziende è in crescita tanto che nel 2011 il fatturato della sola InfoCert è cresciuto <del 30 per cento>.

Izzo, con il fatturato è cresciuta anche l’occupazione aziendale? L’Ict è un settore che persino oggi permette di assumere?

Consideri che il 50 per cento dei nostri dipendenti ha un’anzianità aziendale inferiore ai 3 anni. Oggi siamo in 180, tra Infocert e Klever. La nostra è stata una crescita esponenziale, veloce. Solo nel 2011 la nostra popolazione interna è cresciuta del 15 per cento nelle sedi di Roma, Milano e Padova.

Ora vi siete fermati?

No, anzi. Nello specifico siamo alla ricerca di circa 5 professionisti per la sede Milanese.

Quali requisiti ha il vostro candidato ideale?

Giovane, laureato in informatica, ingegneria informatica o comunque lauree scientifiche. Ultimamente abbiamo scoperto con successo le potenzialità nel nostro campo di chi ha studiato matematica o fisica a livello universitario.

Primeggia chi ha ottenuto il voto più alto?

Non solo. Il voto è predittivo dell’impegno che la persona è in grado di spendere. Ma soprattutto è importante la motivazione. Il neolaureato spesso vuole fare da subito il project manager, non programmare. La programmazione è un lavoro impegnativo, metodico, preciso. E in alcuni casi il giovane non è certo di volersi dedicare a un lavoro come questo, pur importantissimo.

Eppure il momento non sembrerebbe il più opportuno per rifiutare un lavoro...

Il laureato in materie informatiche sa di aver più possibilità di scelta di giovani della sua età. I giovani che si dedicano a questi temi sono pochi e molto difficili da reperire sul mercato, perché molto richiesti. Per questo stiamo effettuando una forte campagna di comunicazione sui social network come Twitter e Linkedin, così da farci conoscere.

Di quali contratti vi avvalete in fase di assunzione?

Al termine del tirocinio, o assumiamo a tempo determinato per poi trasformarlo a indeterminato dopo 12 mesi o attraverso lo strumento dell’apprendistato di 36 mesi.

Come giudica quest’ultimo?

L’apprendistato va sicuramente migliorato. La rigidità principale contro la quale ci scontriamo è che non è possibile interrompere il percorso per ragioni organizzative prima dei tre anni. Il nostro è un business tale che se si decide di investire in una data tecnologia è necessario almeno nella fase iniziale restare flessibili. Quando si fa innovazione non è possibile avere certezze sulla buona riuscita di questo investimento di conseguenza se per sviluppare la tecnologia non posso che affidarmi a giovani apprendisti, rifletto due volte prima di iniziare, perché so che per tre anni avrò una struttura rigida, anche se l’investimento non dovesse andare a buon fine.

Quei tre anni rappresentano una tutela...

Certo, giusto. Ma perché non pensare realmente a contratti in due fasi?  Una prima fase per esempio di 36 mesi in cui è possibile risolvere il contratto con un congruo indennizzo e una seconda fase classica a tempo indeterminato. Non penso che si vada incontro a una precarizzazione ma al contrario a una reale flessibilità. L’apprendistato oggi è perfettamente applicabile solo a grandi aziende. Come Fiat, dove ho lavorato in passato. Ma non è tarato su aziende medie e in forte crescita come la nostra.