martedì 21 maggio 2013

Purtroppo anche con questo governo non vedo prospettive positive per il rilancio della occupazione…

Dopo una serie di annunci sembra che finalmente il nuovo ministro Giovannini abbia chiarito gli interventi che vuole attuare per rilanciare l’occupazione.

Spero di sbagliarmi ma credo che non avranno effetti significativi.

Prima di tutto resto ancora perplesso sul fatto che ancora i ministri del lavoro perseverano a non confrontarsi con chi operativamente sviluppa e gestisce le assunzioni nelle aziende e cioè gli HR manager mentre continuano a sentire soltanto le “parti sociali”.

Da quello che leggo sui giornali il Ministro intende in sintesi:

-          Favorire l’apprendistato

-          Semplificare il contratto a termine (in pratica tornare ad una situazione ante Fornero)

-          Favorire il ponte generazionale

In realtà l’apprendistato, al netto degli sciagurati effetti del titolo quinto della costituzione, ed è sulle differenziazioni regionali che si dovrebbe intervenire, va benissimo così. Già adesso è possibile modificarlo con gli accordi integrativi aziendali e renderlo più adatto alle esigenze specifiche delle aziende. Tuttavia come è stato ampiamente dimostrato, l’apprendistato non assorbe l’enorme stock di parasubordinati over 30 che in Italia si sono generati. La riforma Fornero ha giustamente sfavorito il ricorso alla flessibilità negativa di tutti quei contratti che autonomi non sono. Ma non ha offerto una valida alternativa. Chi ci pensa a tutti i lavoratori espulsi dalla crisi ma professionalizzati?

Le riforme del lavoro non creano occupazione. L’occupazione la generano le imprese. Una buona riforma rende il rischio di assumere più sostenibile e quindi incentiva le impese a rischiare (assumere di più). Nella attuale situazione economica del paese non si scappa: bisogna introdurre forme contrattuali a “tutela indennitaria” che sostituiscano tutte le forme false di flessibilità ma allo stesso tempo rendano “certo” economicamente le rescissione per motivi oggettivi.

Sulla idea di tornare alle precedenti regole del tempo determinato credo sia un dietro front utile e auspicabile in questa congiuntura. Credo sia anche necessario eliminare definitivamente l’obbligo della causale che nella sostanza non garantisce il lavoratore ma è solo fonte di contenzioso.

Il ponte generazionale può essere un percorso che può trovare qualche applicazione nelle grandi banche o in altre organizzazioni simili. Ma nella stragrande maggioranza delle aziende non lo vedo applicabile.
La vedo dura però convincere un lavoratore anziano a diventare part-time alla fine della carriera con magari un figlio in cerca di occupazione o con un membro della famiglia in difficoltà.
In questo periodo chi ha un contratto di lavoro se lo tiene strettissimo…

 

 

 

giovedì 25 aprile 2013

Das Humankapital incontra il dott. Rosario Izzo

Ringrazio Davide de Palma per l'intervista http://dashumankapital.com/

    


Rosario Izzo è lo Human Resources and CSR Director at InfoCert & HR at KLever. Laureato in Sociologia presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, ha svolto un Master in Business Administration presso lo Stoà. È stato HR Manager – Production Business Unit presso Alitalia, HR Development Manager e successivamente HR Manager presso Fiat Group. Oggi lavora in InfoCert, azienda specializzata nei servizi di Certificazione Digitale e Gestione dei documenti in modalità elettronica. InfoCert è il Primo Certificatore per la firma digitale in Italia, leader di mercato per i processi di conservazione sostitutiva dei documenti a norma di legge e per i servizi di Posta Elettronica Certificata.  Ha sedi a Roma, Milano e Padova, è un qualificato partner per aziende operanti nel settore Bancario, Assicurativo, Farmaceutico, Manifatturiero, Energy, Utilities, Distribuzione Commerciale, Ambiente, Qualità, Sicurezza, Sanità, Pubblica Amministrazione, Associazioni di Categoria e Ordini Professionali. Nel dicembre 2009 l’offerta di InfoCert si arricchisce grazie all’acquisizione al 100% di KLever, società di consulenza tecnologica focalizzata su soluzioni di Enterprise Content Management (ECM). Ama andar in bicicletta e cura un piccolo blog nei ritagli di tempo.
 
Davide de Palma: Che Significa lavorare nella Gestione del Personale?
 
Rosario Izzo: Significa attuare iniziative che hanno impatto sulla risorsa più importante di un’organizzazione: le persone.
 
Davide de Palma:  InfoCert che politiche attua per valorizzare i lavoratori?
 
Rosario Izzo: Sistemi trasparenti di sviluppo professionale e retributivo. Condivisione dei risultati e attenzione alle aspettative di ogni componente dell’organizzazione come se fosse un cliente.
 
Davide de Palma:  L’iter di selezione di un candidato come è strutturato?
 
Rosario Izzo: Il canale maggiormente utilizzato per entrare in contatto con Infocert è il web. Pubblichiamo tutte le posizioni aperte sul nostro sito che automaticamente posta le inserzioni sui maggiori portali di recruiting. Successivamente dopo lo screening dei cv i candidati possono essere o intervistati singolarmente o partecipare ad un assessment.
Poiché la maggior parte degli inserimenti in azienda è costituito da neolaureati, siamo presenti alle “fiere del lavoro” più importanti in cui incontriamo direttamente i giovani e dove è possibile entrare in contatto con persone di Infocert.
 
Davide de Palma:  Quali strumenti adoperate per trovare l’uomo giusto al posto giusto?
 
Rosario Izzo: La nostra azienda cerca di essere una adaptive organization che muta nel tempo velocemente così come muta l’ambiente che la circonda. Le persone che entrano in azienda devono avere flessibilità mentale e professionale in modo da poter costantemente essere una risorsa per l’organizzazione mutando di ruolo. In un tale contesto “l’uomo giusto al posto giusto” perde di importanza in quanto non esiste più un posto giusto. Contano maggiormente le attitudini, i valori e le aspirazioni di ognuno.
 
Davide de Palma:  Secondo lei qual è la competenza fondamentale per un lavoratore quando si candida nella sua azienda?
 
Rosario Izzo: Le competenze professionali costituiscono i requisiti di base per entrare in azienda. Tuttavia non è una competenza l’elemento fondamentale ma piuttosto il mind setting intenso come insieme di visione del lavoro, del futuro e dell’organizzazione.
 
Davide de Palma:  Cosa cercate in un candidato? 
 
Rosario Izzo: Voglia di agire, essere parte di un’organizzazione veloce e dinamica. Insofferenza alla noia. Curiosità e autorevolezza.
 
Davide de Palma:  Bene, ma una volta superata al fase di selezione cosa accade?
 
Rosario Izzo: Le persone, a seconda della esperienza acquisita in un dato momento vengono inserite in azienda con diverse forme contrattuali. Gli stage sono tutti retribuiti, durano max 6 mesi e tutti i giovani sono assunti con contratto di apprendistato.
 
Davide de Palma:  Prevedete, fin da subito, ai piani di formazione?
 
Rosario Izzo: Nella nostra azienda il rapporto tra investimenti formativi annuo e fatturato è molto più alto rispetto alla media delle aziende italiane. Investiamo in formazione tecnica (linguaggi di programmazione, tecnologia, etc)  e di sviluppo professionale (competenze manageriali, gestionali e di comunicazione).
 
Davide de Palma:  Quindi esistono piani di carriera strutturati?
 
Rosario Izzo: Piani di carriera strutturati non esistono. Non avrebbero senso in una organizzazione che cambia costantemente e con velocità. Quello che è offerto alle persone è uno sviluppo professionale e retributivo basato su principi meritocratici e proporzionali rispetto ai risultati aziendali.
 
Davide de Palma:  Cos’è il talento per voi? Come lo riconoscete?
 
Rosario Izzo: Il talento nelle organizzazioni è una distorsione ottica. Esistono persone che performano a livelli più alti della media perché sono maggiormente motivati, più integrati e competenti. Ritenere che un individuo sia di per se stesso un talento significa non considerare l’impatto dei sistemi organizzativi e gestionali sulle performance di ogni professionista. Si possono trovare tanti casi di talenti eccezionali che inseriti in altri contesti sono stati un fallimento.
 
Davide de Palma:  Quali sono le politiche di gestione del personale che attuate per trattenere i talenti?
 
Rosario Izzo: Posto che i talenti non esistono, InfoCert cerca di trattenere le persone di valore facendo leva sul senso di appartenenza e sulla motivazione verso gli obiettivi comuni.
 
Davide de Palma:  Che tipo di politiche incentivanti avete?
 
Rosario Izzo: Tutti i dipendenti di Infocert, in funzione del ruolo aziendale svolto,  sono coinvolti in un sistema di incentivazione su base annuale strutturato in maniera molto semplice. Ognuno riceve un premio variabile legato in parte ai risultati aziendali e in parte ai risultati individuali. Gli obiettivi aziendali di fatturato e di redditività sono comunicati a tutti. Dal primo all’ultimo dipendente.
 
Davide de Palma:  Crede che oggi le aziende debbano dotarsi di strumenti che siano una sorta di bilancio del capitale umano?
 
Rosario Izzo: Credo sia un utile strumento per rappresentare il vero  valore distintivo di un’azienda. In particolare la sostenibilità nel tempo della organizzazione.  In Infocert ci stiamo lavorando e a breve ci doteremo di uno strumento del genere.
 
Davide de Palma:  Il filosofo Gianni Vattimo con una efficace battuta sul suo pensiero dice “Il pensiero debole è il pensiero dei deboli”. Crede che oggi occuparsi della gestione del capitale umano non sia occuparsi proprio dei deboli?  
 
Rosario Izzo: Non credo. Penso che oggi occuparsi della gestione del capitale in un’azienda competitiva significa occuparsi dell’individuo nel suo complesso. Occuparsi di scelte responsabili e di positività nei riguardi del futuro.
 
Davide de Palma:  Das Humankapital nasce dall’idea di valorizzare le donne e gli uomini che vivono le imprese, crede sia importante incamminarsi verso un nuovo umanesimo del lavoro?
 
Rosario Izzo: Si. Se per nuovo umanesimo del lavoro si intende un nuovo patto psicologico tra organizzazione e persona. Non più basato soltanto su scambio di lavoro e retribuzione ma su appartenenza, valori e visione del futuro.

mercoledì 22 agosto 2012

How to transform a decadent organization into a competitive one


In my opinion one of the current hardest HR challenges is to support an organization in its transformation process from a declining condition into a competitive one.
During a macro-economic crisis period, the following declining company models may be observed:

-          Former market leader
It’s not unusual to meet declining firms which were leaders before. It often happens that something changed dramatically in the market and they were not able to re-invent their competitive advantage.

-          Lack of leadership in the Management team
In a critical situation Management may not have enough leadership to move out of the crisis. This usually happens because when you’re part of a problem it’s really hard to be able to find the solution.

-          Low  level of people engagement
Engagement level in a crisis is usually very low. Although it’s difficult to understand the relationship between low performance and low engagement, a lot of scientific researches demonstrate the connection.

-          Employees are afraid of losing their jobs
Employees’ highest worry is to lose their job. This creates a vicious circle since worries about job produce low engagement, which finally results in a performance decrease, reinforcing the crisis.

-          High level of unionization
In a crisis situation or in a static firm the unionization level tends to grow. This is another vicious circle because unions are typically focused on protecting employment instead than creating the basis to move out of the crisis. In addition unions prefer to negotiate contract clauses for all the employees, thus neglecting the individual efforts.

-          Low level of meritocracy
The level of meritocracy in a declining firm is usually low. You can find different causes to this phenomenon: first of all the HR budget shortage; furthermore you can see that when cost reduction actions are implemented, it is impossible to provide incentives to individuals by means of promotions or special rewards.

-          Low empowerment
In this situation, people are only focused on their tasks with no interest for functional processes or common targets. This is explained by a corporate culture that avoids individual initiatives instead of stimulating personal efforts.

-          Company targets unknown to employees
In many unsuccessful companies it's common to find a lack of communication about company strategy and targets. Employees are not able to align themselves to any strategy or assumption simply because they don’t know anything. In many firms the strategy is well known and shared within Management team, but the drill down process is absent or does not work properly.


-          Inadequate compensation system
The compensation systems is based on variables which are not connected to results, depending only on the role and on contract type. Performance management is absent or not very significant.  

For a HR manager who wants to face a static or a crisis situation I suggest he/she starts from a methodology which was originally developed by Tushman and O’Reilly and described in the book Winning Through Innovation [1].
In my experience this methodology helps HR directors and managing directors to identify the most important actions in order to transform an organization. In their book, Tushman and O’Reilly introduce the so called “congruence model”, aimed at aligning people, culture and formal organization to the tasks required by the strategic goals which have been set.
In many cases an organization is not able to achieve its strategic goals because congruence between the goals and the HR dimensions does not work properly. The HR manager mission is to identify and consequently to implement the corrective actions aiming at re-establishing the new congruence.

The methodology I suggest is based on four fundamental drivers:
·         Critical Tasks and workflows to be accomplished;
·         Culture (policies, values, informal communication networks);
·         Formal Organization (structure, system, rewards);
·         People (competencies, motivation, compensation and commitment).
The alignment or congruence between these items must be successful in the short term, while incongruence between them is a likely cause of performance gaps.






The first step is to identify the incongruence between corporate strategy and critical tasks on the one hand, and the other dimensions (people, culture, organization) on the other hand.
The second step is to set the corrective actions to change culture, organization and people and to create a congruent system.
The final step is planning and implementing these actions.
The methodology is simple but not ordinary. It’s not easy to implement the identified actions because they concern the deep organization characteristics. It is important to communicate the sense of urgency and to be persistent.


[1]. Tushman, Michael, and Charles A. O'Reilly. Winning through Innovation: a Practical Guide to Leading Organizational Change and Renewal. Boston, MA: Harvard Business School, 2002



venerdì 22 giugno 2012

Perchè dobbiamo abbandonare l'uso del CV

Credo sia arrivato il momento di mettere seriamente in discussione il Curriculum Vitae come strumento adeguato a presentare professionalmente una persona. Non mi riferisco al modalità o al formato (cartaceo, facecv, social network, videocv, formato europeo, etc) ma al modello culturale e professionale di riferimento del CV. Il CV è una forzatura della realtà, una visione distorta e strabica di una persona: di fatti, proprio come nello strabismo, il CV porta alla perdita di profondità, forza le distanze facendo apparire oggetti lontani o vicini quando non lo sono nella realtà.
Il CV è il portato di una visione dello sviluppo professionale artificiosa, conseguente alla applicazione dei principi del fordismo anche ai processi umani. Di fatto i CV sono sequenziali, non ammettono incoerenze nemmeno apparenti. Non è ammissibile un CV senza miglioramenti né ampliamenti di responsabilità nel corso del tempo. È in effetti la trasposizione economicistica dello sviluppo progressivo e permanente allo sviluppo professionale. Il cv non ammette ripensamenti né distrazioni, non è possibile che qualcuno possa ritornare sui propri passi per approfondire una esperienza o semplicemente per ricominciare. Non c’è spazio per la sperimentazione perché sarebbe letta negativamente come discontinuità. Il CV misura il tempo che scorre solo in avanti e che appare intrinsecamente come una corsa in velocità: le tappe vanno percorse il più velocemente possibile.
Chi “lavora con le persone” allora deve fare attenzione seriamente al “mito distorto” del CV. Esso è il mito che porta ad assumere o a far crescere manager con cv eccezionali e iper-specializzati perdendo di vista che la specializzazione è un sapere “povero” se confrontato alle capacità. È lo stesso mito che privilegia CV “veloci” che hanno bruciato tutte le tappe ma assolutamente inesperti perché l’esperienza, ce ne siamo dimenticati, non può prescindere dal tempo e dalla riflessione. L’esperienza è un processo di accumulazione e non un percorso di velocità.
Il mito distorto del cv è diventato tale perché basandosi sulla illusione della razionalità intrinseca degli strumenti ha fatto perdere di vista il giudizio sul merito e sui fini. Di fatti il cv strabicamente riduce tutta la complessità delle aspirazioni e delle motivazioni personali al solo percorso di carriera. Svilisce le relazioni umane, i valori personali e i sentimenti. In ultima istanza attua una netta separazione tra vita e professione, per questo induce in errore perché apre il fronte alla rivalsa che la vita personale con tutto il suo bagaglio di valori, comportamenti, aspirazioni, sta già preparando subdolamente nei confronti della organizzazione.
 

Per superare i limiti del cv bisogna sostituirlo con la storia professionale
Nella storia professionale devono trovare spazio i perché, i come e i “con chi”. 
I soggetti devono descriversi con percorsi reali e quindi complessi. Descrivendo gli andirivieni, i ripensamenti e quindi i percorsi circolari. 
Questo perché la maturità in generale, quella professionale non fa eccezione, si acquisisce spesso ritornando sui propri passi, e le contraddizioni non sono un tabù (come nel cv) e ritornano ad essere il fattore scatenante della crescita umana.
 

Il cv deve essere messo in discussione perché le aziende oggi hanno bisogno di persone con caratteristiche tali per cui il modello cv non è più lo strumento confacente. 
 
Le organizzazioni cercano persone in grado di integrarsi, persone ambiziose che siano disposte a sposare gli obiettivi aziendali e che si sviluppano insieme al proprio team da cui la propria carriera non prescinde. 


Persone di cui è diventato più rilevante quello che pensano rispetto a quello che sanno fare.

giovedì 10 maggio 2012

Corporate Wellness: perchè alle aziende conviene investire sullo sviluppo delle persone


Perché un’azienda dovrebbe occuparsi dello sviluppo personale dei propri dipendenti? Lo sviluppo etico, civile, culturale e fisico ed in generale il benessere delle persone è una gran bella cosa… ma perché dovrebbe interessare ai managers delle aziende? La risposta è perché gli conviene. Di fatti i programmi che molte aziende innovative stanno introducendo all’interno delle proprie organizzazioni non sono semplicemente un fenomeno di moda oppure l’attribuzione di un utile benefit accessorio e temporaneo per i propri dipendenti. Questi programmi sono l’applicazione di strategie di “egoismo lungimirante” (come lo chiamerebbe Pierluigi Celli) in quanto sono investimenti con elevato ritorno in termini di produttività e di riduzione dei costi.
Approfondiamo l’argomento….
Le aziende normali attuano programmi di formazione e sviluppo su contenuti che servono al lavoratore per il ruolo che ricopre o che andrà a ricoprire. Che sia training tecnico e/o manageriale (nei piani formativi ho visto definizioni quali formazione di ruolo e formazione tecnica) il messaggio abbastanza esplicito è: io azienda investo risorse e il tuo tempo perché così posso “utilizzarti” meglio e aumentare la tua produttività. Anche la formazione linguistica è somministrata con lo stesso criterio di ruolo. I piani di sviluppo manageriale hanno lo stesso mindset: l’azienda sviluppa la tua leadership e le tue capacità gestionali perché tu sia uno strumento gestionale più efficace e funzionale agli obiettivi aziendali.
Siamo chiari…  va tutto bene… a trovarle aziende che investono sullo sviluppo del loro capitale umano! Ma oggi è sufficiente? Ma perché allora ci sono aziende che spendono soldi per aiutare a smettere di fumare o per esempio offrono programmi di benessere o sportivi?
Il motivo è che il contratto psicologico che lega organizzazioni e lavoratori sta cambiando e lo scenario in cui operano le aziende, in particolare quelle ad alto contenuto tecnologico, ha reso difficile se non impossibile a causa della permanente incertezza, pianificare i contenuti di sviluppo e formazione su cui investire.
Ecco allora che i programmi di sviluppo personale e di benessere nell’ambiente di lavoro hanno l’effetto di aumentare sensibilmente la produttività del personale, l’allineamento, l’attaccamento all’’azienda, ridurre il turn-over, ridurre l’assenteismo e i comportamenti contro-dipendenti, aumentare le capacità negoziali e di sviluppo della innovazione.
Non si tratta di intuizioni senza ancora fondamento… ci sono infatti già ricerche quantitative autorevoli che dimostrano il ROI di questi programmi (cfr Harvard Business Review gennaio/febbraio 2011 per esempio).
Il contratto psicologico che lega lavoratore e azienda è cambiato nel senso che non è più basato semplicemente su uno scambio tra prestazione e retribuzione ma è diventato una relazione complessa biunivoca di fiducia, rispetto di principi etici, di coinvolgimento completo della persona e di visione del futuro. In questo senso i componenti di una organizzazione si aspettano che l’azienda investa su tutta la persona nel suo complesso (capacità intellettuali, gestionali, linguistiche, relazionali, fisiche etc.) assumendo anche un ruolo proattivo e propositivo sul proprio percorso di crescita. Ecco allora che un investimento aziendale su questi elementi ha un ritorno molto elevato in termini di motivazione, partecipazione e attaccamento rispetto agli investimenti formativi “classici”.
Perché questi programmi abbiano successo bisogna tener conto di alcuni fattori critici:
1. bisogna che ci sia coinvolgimento della leadership a vari livelli: è importante che il mangement a tutti i livelli scelga di partecipare ai programmi e sponsorizzi internamente l’iniziativa. Senza il supporto del management o addirittura una bocciatura da parte dei “capi”, questi programmi potrebbero diventare addirittura un boomerang negativo dimostrando lo scollamento tra i membri della linea gerarchica.
2. è necessario che ci sia coerenza tra i programmi prescelti con l’identità e la cultura dell’azienda: se l’azienda propone iniziative molto distanti dalla cultura aziendale il rischio è che queste vengano viste solo come una operazione di facciata. È anche vero che i cambiamenti culturali all’interno delle organizzazioni avvengono lentamente e che quindi bisogna tener conto comunque di un ritardo fisiologico…
3. bisogna che i programmi abbiano una diffusione generalizzata: perché vengano percepiti di valore è importante che l’azienda renda disponibile la partecipazione a chiunque voglia aderire senza segmentazione di ruolo, di gerarchia o altro.
4. alta qualità: i programmi devono essere percepiti come un investimento di valore e non come un surplus temporaneo. Quindi bisogna scegliere partner e fornitori di alto livello.
5. comunicazione efficace: i programmi devo essere accompagnati da una comunicazione interna permeante ed efficace. Assolutamente necessaria è la possibilità da parte di coloro che hanno aderito di avere uno spazio di discussione aperto (p.e. sulla intranet) dove commentare e coinvolgere tutto il resto della azienda.










martedì 13 marzo 2012

Organizzazione virale


L’evoluzione del paradigma competitivo unitamente allo sviluppo di nuove tipologie di competenze manageriali porta al superamento del modello organizzativo verticistico e piramidale a cui siamo abituati da più di un secolo e l’affermarsi parallelamente di un nuovo modello organizzativo che si potrebbe definire “virale”. L’organizzazione virale contraddistingue le aziende fortemente orientate al mercato, flessibili, e in particolare di medie dimensioni.
 Le organizzazioni devono oggi operare in uno stato:
·         di crisi permanente;
·         di cambiamenti costanti e repentini.
Come affermano Foster e Kaplan in Creative Distruction 2001 “le aziende per sopravvivere hanno bisogno continuamente di reinventarsi, di cannibalizzare attivamente i propri prodotti e i propri modelli operativi”. 
In un contesto di questo tipo l’organizzazione gerarchica costituisce una forma troppo rigida per poter competere efficacemente. Ecco allora che si costituiscono forme organizzative basate su sfere di influenza e non per organigramma. Nell’organizzazione virale le responsabilità sono definite ma le gerarchie sono multidimensionali. Le responsabilità e le decisioni connesse non riportano attraverso i vari rami aziendali al capo azienda ma a seconda delle competenze e delle esperienze possono concentrarsi in punti diversi.
L’organizzazione virale come modello sociologico è associabile ad una community (ma anche al clan/tribù antropologica) dove in un sistema integrato convivono diverse sfere di influenza, in contrapposizione al modello verticistico di tipo militare tipico dell’organizzazione gerarchica.
Il modello virale si sviluppa come risposta al nuovo ambiente competitivo grazie anche all’emergere di nuovi profili manageriali, nuove competenze e nuovi stili di leadership.
Infatti all’interno di queste nuove organizzazioni è possibile osservare l’affermarsi di tanti profili “ibridi” che associano funzioni diverse (commerciale + HR, produzione + finance, etc.) basati su ruoli orizzontali di processo e non di funzione, con competenze integrate impensabili all’interno delle organizzazioni gerarchiche. Inoltre nell’ambito delle nuove competenze manageriali si affermano prioritariamente le capacità di costituire alleanze che vanno oltre i rapporti lavorativi, capacità che privilegiano il fare gruppo a discapito della competizione interna. 
Per ciò che riguarda il modello di leadership, le nuove organizzazioni sviluppano stili di leadership contraddistinti dalla capacità di gestire l’incertezza, di valutare  e calcolare rischi con scarse informazioni e di prendere decisioni in situazioni con scarsità di tempo.
Le organizzazioni virali favoriscono il risk taking perché creano rapporti solidali tra i membri e attraverso le alleanze gestiscono anche i fallimenti temporanei. Esse favoriscono percorsi di carriera diversi rispetto al passato e presuppongono processi di recruiting e selezione  coerenti.
Le organizzazioni virali durante la selezione, dopo aver verificato le competenze tecniche, privilegiano i candidati che maggiormente si sposano con la cultura del gruppo e che potenzialmente siano in grado di sviluppare senso di appartenenza. In queste organizzazioni si può scientemente rinunciare ai candidati con un cv migliore perché è il gruppo che privilegiano e non il singolo. I cv più interessanti sono quelli discontinui che mostrano apparenti salti da un ruolo ad un altro e che possono indicare capacità di adattamento e sincretismo di mestieri. Le persone più adatte sono quelle che dimostrano di esser più inclini a imparare dagli altri.
Anche i percorsi di carriera sembrano apparentemente discontinui. Inoltre, queste organizzazioni, privilegiando le responsabilità, l’influenza e le performance a discapito della gerarchia, disinnescano tutti gli effetti negativi delle organizzazioni gerarchiche quali la esclusiva crescita verticale, il legame casella organizzativa con la retribuzione e non ultima la sindrome di Peter.

martedì 28 febbraio 2012

Feedback e responsabilità positiva


Nei primi mesi di ogni anno sono alle prese con i cicli di chiusura e valutazione delle performance e di conseguenza con i dubbi e le perplessità sincere dei mie colleghi a cui spetta il compito di “restituire” la valutazione annuale ai propri collaboratori.
Ogni volta ci chiediamo quale può essere il feedback più efficace. L’esperienza ci ha insegnato che il “segno” (positivo o negativo) del feedback non ha esiti scontati. Un feedback positivo a volte ha lasciato i collaboratori un po’ delusi mentre un feedback “correttivo” spesso peggiora la situazione.
I miei colleghi ed io, siamo riusciti, con l’esperienza e il conforto di un po’ di letteratura scientifica, a tracciare alcune indicazioni pratiche e orientamenti utili.
La prima osservazione riguarda la tipologia di lavoro e non il “carattere” della persona come magari si può pensare intuitivamente…
Le persone che fanno lavori molto regolamentati e proceduralizzati come anche coloro che hanno contratti temporanei sono molto “sensibili” a feedback negativi/correttivi. Questa tipologia di feedback, quando necessaria, riesce ad avere quindi effetti significativi sulla performance e risulta essere in genere efficace.
Nei casi invece di tipologie di attività “creative” nel senso di lavori in cui è richiesta la capacità della persona di scegliere tra diverse opzioni e dove quindi c’è un investimento personale, un feedback negativo anche se giustificato può avere effetti controproducenti. Invece in questi casi un feedback positivo ad una persona che ha avuto rendimenti positivi riesce ad alzare ancora ulteriormente il livello di performance o comunque dell’impegno.
Un effetto simile si può avere in considerazione della motivazione al lavoro del collaboratore. Nei casi di una prevalente motivazione legata alla remunerazione, i feedback negativi sono sensibilmente più efficaci mentre quelli positivi sono neutrali. Inversamente nei casi di motivazione prevalente nella soddisfazione personale i feedback positivi aumentano ancora di più la prestazione mentre quelli negativi possono ingenerare comportamenti ancora più negativi.
La regola generale da seguire empiricamente secondo la mia esperienza quindi è la seguente:
step 1: per prima cosa individuare la situazione organizzativa/gestionale in cui si trova il collaboratore e quindi stabilire se esso si trova nella area sensibile a feed-back positivi o a quelli negativi (motivazione, contratto di lavoro, valori, contenuti del lavoro);
step 2: se ci si trova in un’area sensibile al feedback negativo allora è consigliabile evitare aspetti positivi e concentrarsi sul bicchiere mezzo vuoto (che cosa non è andato bene, che cosa va corretto, casi negativi);
step 3: se ci si trova in un’area sensibile al feedback positivo allora è consigliabile lasciar perdere i gap e gli aspetti negativi e concentrasi sui punti forza. In questi casi se ci si trova di fronte ad una performance negativa è preferibile non insistere su azioni di miglioramento perché avrebbero molto probabilmente un effetto controproducente.
A conforto di questa esperienza, ho trovato molto stimolanti gli studi sviluppati dal prof. Avi Kluger sulla positive psychology e in particolare le metodologie di FFI Feedforward Interview.
In sintesi la proposta dell’FFI consiste nel rinunciare al classico colloquio di feedback basato sui gap di competenze e sulle azioni di miglioramento da attuare per aumentare le performance e di concentrarsi invece sui punti di forza da potenziare e sulle esperienze positive e di successo.

Il feedback di valutazione è nella sostanza uno strumento da maneggiare con molta attenzione. Se non usato bene può avere effetti molto negativi sulle relazioni professionali e sul clima aziendale. In situazioni dubbie e critiche io personalmente consiglio come estrema ratio di evitarlo.

I difetti purtroppo non si cambiano… possono essere solo o eliminati oppure sterilizzati.  

L’energia spesa per lavorare sui difetti è quasi una perdita di tempo… è meglio puntare sulle positività e coprirsi dalle debolezze.

Per chi è interessato ecco alcuni riferimenti: http://www.feedforward.co.il/about.aspx