
martedì 18 giugno 2013
martedì 21 maggio 2013
Purtroppo anche con questo governo non vedo prospettive positive per il rilancio della occupazione…
Dopo una serie di annunci sembra che finalmente il nuovo ministro
Giovannini abbia chiarito gli interventi che vuole attuare per rilanciare l’occupazione.
Spero di sbagliarmi ma credo che non avranno effetti significativi.
Spero di sbagliarmi ma credo che non avranno effetti significativi.
Prima di tutto resto ancora perplesso sul fatto che ancora i
ministri del lavoro perseverano a non confrontarsi con chi operativamente
sviluppa e gestisce le assunzioni nelle aziende e cioè gli HR manager mentre
continuano a sentire soltanto le “parti sociali”.
Da quello che leggo sui giornali il Ministro intende in sintesi:
-
Favorire l’apprendistato
-
Semplificare il contratto a termine (in pratica
tornare ad una situazione ante Fornero)
-
Favorire il ponte generazionale
In realtà l’apprendistato, al netto degli sciagurati effetti
del titolo quinto della costituzione, ed è sulle differenziazioni regionali che
si dovrebbe intervenire, va benissimo così. Già adesso è possibile modificarlo
con gli accordi integrativi aziendali e renderlo più adatto alle esigenze
specifiche delle aziende. Tuttavia come è stato ampiamente dimostrato, l’apprendistato
non assorbe l’enorme stock di parasubordinati over 30 che in Italia si sono
generati. La riforma Fornero ha giustamente sfavorito il ricorso alla
flessibilità negativa di tutti quei contratti che autonomi non sono. Ma non ha
offerto una valida alternativa. Chi ci pensa a tutti i lavoratori espulsi dalla crisi ma professionalizzati?
Le riforme del lavoro non creano occupazione. L’occupazione
la generano le imprese. Una buona riforma rende il rischio di assumere più
sostenibile e quindi incentiva le impese a rischiare (assumere di più). Nella attuale
situazione economica del paese non si scappa: bisogna introdurre forme contrattuali
a “tutela indennitaria” che sostituiscano tutte le forme false di flessibilità
ma allo stesso tempo rendano “certo” economicamente le rescissione per motivi
oggettivi.
Sulla idea di tornare alle precedenti regole del tempo determinato
credo sia un dietro front utile e auspicabile in questa congiuntura. Credo sia
anche necessario eliminare definitivamente l’obbligo della causale che nella
sostanza non garantisce il lavoratore ma è solo fonte di contenzioso.
Il ponte generazionale può essere un percorso che può trovare
qualche applicazione nelle grandi banche o in altre organizzazioni simili. Ma nella stragrande maggioranza delle aziende non lo vedo applicabile.
La vedo
dura però convincere un lavoratore anziano a diventare part-time alla fine della
carriera con magari un figlio in cerca di occupazione o con un membro della
famiglia in difficoltà.
In questo periodo chi ha un contratto di lavoro se lo
tiene strettissimo…
giovedì 25 aprile 2013
Das Humankapital incontra il dott. Rosario Izzo
Ringrazio Davide de Palma per l'intervista http://dashumankapital.com/
Rosario Izzo è lo Human Resources and CSR Director at InfoCert & HR at KLever. Laureato in Sociologia presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, ha svolto un Master in Business Administration presso lo Stoà. È stato HR Manager – Production Business Unit presso Alitalia, HR Development Manager e successivamente HR Manager presso Fiat Group. Oggi lavora in InfoCert, azienda specializzata nei servizi di Certificazione Digitale e Gestione dei documenti in modalità elettronica. InfoCert è il Primo Certificatore per la firma digitale in Italia, leader di mercato per i processi di conservazione sostitutiva dei documenti a norma di legge e per i servizi di Posta Elettronica Certificata. Ha sedi a Roma, Milano e Padova, è un qualificato partner per aziende operanti nel settore Bancario, Assicurativo, Farmaceutico, Manifatturiero, Energy, Utilities, Distribuzione Commerciale, Ambiente, Qualità, Sicurezza, Sanità, Pubblica Amministrazione, Associazioni di Categoria e Ordini Professionali. Nel dicembre 2009 l’offerta di InfoCert si arricchisce grazie all’acquisizione al 100% di KLever, società di consulenza tecnologica focalizzata su soluzioni di Enterprise Content Management (ECM). Ama andar in bicicletta e cura un piccolo blog nei ritagli di tempo.
Davide de Palma: Che Significa lavorare nella Gestione del Personale?
Rosario Izzo: Significa attuare iniziative che hanno impatto sulla risorsa più importante di un’organizzazione: le persone.
Davide de Palma: InfoCert che politiche attua per valorizzare i lavoratori?
Rosario Izzo: Sistemi trasparenti di sviluppo professionale e retributivo. Condivisione dei risultati e attenzione alle aspettative di ogni componente dell’organizzazione come se fosse un cliente.
Davide de Palma: L’iter di selezione di un candidato come è strutturato?
Rosario Izzo: Il canale maggiormente utilizzato per entrare in contatto con Infocert è il web. Pubblichiamo tutte le posizioni aperte sul nostro sito che automaticamente posta le inserzioni sui maggiori portali di recruiting. Successivamente dopo lo screening dei cv i candidati possono essere o intervistati singolarmente o partecipare ad un assessment.
Poiché la maggior parte degli inserimenti in azienda è costituito da neolaureati, siamo presenti alle “fiere del lavoro” più importanti in cui incontriamo direttamente i giovani e dove è possibile entrare in contatto con persone di Infocert.
Davide de Palma: Quali strumenti adoperate per trovare l’uomo giusto al posto giusto?
Rosario Izzo: La nostra azienda cerca di essere una adaptive organization che muta nel tempo velocemente così come muta l’ambiente che la circonda. Le persone che entrano in azienda devono avere flessibilità mentale e professionale in modo da poter costantemente essere una risorsa per l’organizzazione mutando di ruolo. In un tale contesto “l’uomo giusto al posto giusto” perde di importanza in quanto non esiste più un posto giusto. Contano maggiormente le attitudini, i valori e le aspirazioni di ognuno.
Davide de Palma: Secondo lei qual è la competenza fondamentale per un lavoratore quando si candida nella sua azienda?
Rosario Izzo: Le competenze professionali costituiscono i requisiti di base per entrare in azienda. Tuttavia non è una competenza l’elemento fondamentale ma piuttosto il mind setting intenso come insieme di visione del lavoro, del futuro e dell’organizzazione.
Davide de Palma: Cosa cercate in un candidato?
Rosario Izzo: Voglia di agire, essere parte di un’organizzazione veloce e dinamica. Insofferenza alla noia. Curiosità e autorevolezza.
Davide de Palma: Bene, ma una volta superata al fase di selezione cosa accade?
Rosario Izzo: Le persone, a seconda della esperienza acquisita in un dato momento vengono inserite in azienda con diverse forme contrattuali. Gli stage sono tutti retribuiti, durano max 6 mesi e tutti i giovani sono assunti con contratto di apprendistato.
Davide de Palma: Prevedete, fin da subito, ai piani di formazione?
Rosario Izzo: Nella nostra azienda il rapporto tra investimenti formativi annuo e fatturato è molto più alto rispetto alla media delle aziende italiane. Investiamo in formazione tecnica (linguaggi di programmazione, tecnologia, etc) e di sviluppo professionale (competenze manageriali, gestionali e di comunicazione).
Davide de Palma: Quindi esistono piani di carriera strutturati?
Rosario Izzo: Piani di carriera strutturati non esistono. Non avrebbero senso in una organizzazione che cambia costantemente e con velocità. Quello che è offerto alle persone è uno sviluppo professionale e retributivo basato su principi meritocratici e proporzionali rispetto ai risultati aziendali.
Davide de Palma: Cos’è il talento per voi? Come lo riconoscete?
Rosario Izzo: Il talento nelle organizzazioni è una distorsione ottica. Esistono persone che performano a livelli più alti della media perché sono maggiormente motivati, più integrati e competenti. Ritenere che un individuo sia di per se stesso un talento significa non considerare l’impatto dei sistemi organizzativi e gestionali sulle performance di ogni professionista. Si possono trovare tanti casi di talenti eccezionali che inseriti in altri contesti sono stati un fallimento.
Davide de Palma: Quali sono le politiche di gestione del personale che attuate per trattenere i talenti?
Rosario Izzo: Posto che i talenti non esistono, InfoCert cerca di trattenere le persone di valore facendo leva sul senso di appartenenza e sulla motivazione verso gli obiettivi comuni.
Davide de Palma: Che tipo di politiche incentivanti avete?
Rosario Izzo: Tutti i dipendenti di Infocert, in funzione del ruolo aziendale svolto, sono coinvolti in un sistema di incentivazione su base annuale strutturato in maniera molto semplice. Ognuno riceve un premio variabile legato in parte ai risultati aziendali e in parte ai risultati individuali. Gli obiettivi aziendali di fatturato e di redditività sono comunicati a tutti. Dal primo all’ultimo dipendente.
Davide de Palma: Crede che oggi le aziende debbano dotarsi di strumenti che siano una sorta di bilancio del capitale umano?
Rosario Izzo: Credo sia un utile strumento per rappresentare il vero valore distintivo di un’azienda. In particolare la sostenibilità nel tempo della organizzazione. In Infocert ci stiamo lavorando e a breve ci doteremo di uno strumento del genere.
Davide de Palma: Il filosofo Gianni Vattimo con una efficace battuta sul suo pensiero dice “Il pensiero debole è il pensiero dei deboli”. Crede che oggi occuparsi della gestione del capitale umano non sia occuparsi proprio dei deboli?
Rosario Izzo: Non credo. Penso che oggi occuparsi della gestione del capitale in un’azienda competitiva significa occuparsi dell’individuo nel suo complesso. Occuparsi di scelte responsabili e di positività nei riguardi del futuro.
Davide de Palma: Das Humankapital nasce dall’idea di valorizzare le donne e gli uomini che vivono le imprese, crede sia importante incamminarsi verso un nuovo umanesimo del lavoro?
Rosario Izzo: Si. Se per nuovo umanesimo del lavoro si intende un nuovo patto psicologico tra organizzazione e persona. Non più basato soltanto su scambio di lavoro e retribuzione ma su appartenenza, valori e visione del futuro.
mercoledì 22 agosto 2012
How to transform a decadent organization into a competitive one
In my
opinion one of the current hardest HR challenges is to support an organization
in its transformation process from a declining condition into a competitive one.
During a
macro-economic crisis period, the following declining company models may be observed:
-
Former market leader
It’s not unusual to meet declining firms which were leaders before. It often
happens that something changed dramatically in the market and they were not
able to re-invent their competitive advantage.
-
Lack of leadership in the Management
team
In a critical situation Management may not have enough leadership to
move out of the crisis. This usually happens because when you’re part of a problem
it’s really hard to be able to find the solution.
-
Low level of people engagement
Engagement level in a crisis is usually very low. Although it’s
difficult to understand the relationship between low performance and low
engagement, a lot of scientific researches demonstrate the connection.
-
Employees are afraid of losing their
jobs
Employees’ highest worry is to lose their job. This creates a vicious
circle since worries about job produce low engagement, which
finally results in a performance decrease, reinforcing the crisis.
-
High level of unionization
In a crisis situation or in a static firm the unionization level tends
to grow. This is another vicious circle because unions are typically focused on
protecting employment instead than creating the basis to move out of the
crisis. In addition unions prefer to negotiate contract clauses for all the employees,
thus neglecting the individual efforts.
-
Low level of meritocracy
The level of meritocracy in a declining firm is usually low. You can find
different causes to this phenomenon: first of all the HR budget shortage; furthermore
you can see that when cost reduction actions are implemented, it is impossible
to provide incentives to individuals by means of
promotions or special rewards.
-
Low empowerment
In this situation, people are only focused on their tasks with no
interest for functional processes or common targets. This is explained by a
corporate culture that avoids individual initiatives instead of stimulating
personal efforts.
-
Company targets unknown to employees
In many unsuccessful companies it's common to find a lack of communication
about company strategy and targets. Employees are not able to align themselves
to any strategy or assumption simply because they don’t know anything. In many
firms the strategy is well known and shared within Management team, but the
drill down process is absent or does not work properly.
-
Inadequate compensation system
The compensation systems is based on variables which are not connected
to results, depending only on the role and on contract type. Performance
management is absent or not very significant.
For a HR
manager who wants to face a static or a crisis situation I suggest he/she starts
from a methodology which was originally developed by Tushman and O’Reilly and described in the book Winning Through Innovation [1].
In my
experience this methodology helps HR directors and managing directors to identify
the most important actions in order to transform an organization. In their
book, Tushman and O’Reilly introduce the so called “congruence model”, aimed at
aligning people, culture and formal organization to the tasks required by the
strategic goals which have been set.
In many
cases an organization is not able to achieve its strategic goals because congruence
between the goals and the HR dimensions does not work properly. The HR manager
mission is to identify and consequently to implement the corrective actions aiming
at re-establishing the new congruence.
The
methodology I suggest is based on four fundamental drivers:
·
Critical Tasks and workflows to be accomplished;
·
Culture (policies, values, informal communication
networks);
·
Formal Organization (structure, system, rewards);
·
People (competencies, motivation, compensation and
commitment).
The
alignment or congruence between these items must be successful in the short
term, while incongruence between them is a likely cause of performance gaps.
The first
step is to identify the incongruence between corporate strategy and critical
tasks on the one hand, and the other dimensions (people, culture, organization)
on the other hand.
The second
step is to set the corrective actions to change culture, organization and
people and to create a congruent system.
The final
step is planning and implementing these actions.
The
methodology is simple but not ordinary. It’s not easy to implement the
identified actions because they concern the deep organization characteristics.
It is important to communicate the sense of urgency and to be persistent.
[1]. Tushman,
Michael, and Charles A. O'Reilly. Winning through Innovation: a Practical
Guide to Leading Organizational Change and Renewal. Boston, MA:
Harvard Business School, 2002
venerdì 22 giugno 2012
Perchè dobbiamo abbandonare l'uso del CV
Credo sia arrivato il momento di mettere seriamente in discussione il Curriculum Vitae come strumento adeguato a presentare professionalmente una persona. Non mi riferisco al modalità o al formato (cartaceo, facecv, social network, videocv, formato europeo, etc) ma al modello culturale e professionale di riferimento del CV. Il CV è una forzatura della realtà, una visione distorta e strabica di una persona: di fatti, proprio come nello strabismo, il CV porta alla perdita di profondità, forza le distanze facendo apparire oggetti lontani o vicini quando non lo sono nella realtà.
Il CV è il portato di una visione dello sviluppo professionale artificiosa, conseguente alla applicazione dei principi del fordismo anche ai processi umani. Di fatto i CV sono sequenziali, non ammettono incoerenze nemmeno apparenti. Non è ammissibile un CV senza miglioramenti né ampliamenti di responsabilità nel corso del tempo. È in effetti la trasposizione economicistica dello sviluppo progressivo e permanente allo sviluppo professionale. Il cv non ammette ripensamenti né distrazioni, non è possibile che qualcuno possa ritornare sui propri passi per approfondire una esperienza o semplicemente per ricominciare. Non c’è spazio per la sperimentazione perché sarebbe letta negativamente come discontinuità. Il CV misura il tempo che scorre solo in avanti e che appare intrinsecamente come una corsa in velocità: le tappe vanno percorse il più velocemente possibile.
Chi “lavora con le persone” allora deve fare attenzione seriamente al “mito distorto” del CV. Esso è il mito che porta ad assumere o a far crescere manager con cv eccezionali e iper-specializzati perdendo di vista che la specializzazione è un sapere “povero” se confrontato alle capacità. È lo stesso mito che privilegia CV “veloci” che hanno bruciato tutte le tappe ma assolutamente inesperti perché l’esperienza, ce ne siamo dimenticati, non può prescindere dal tempo e dalla riflessione. L’esperienza è un processo di accumulazione e non un percorso di velocità.
Il mito distorto del cv è diventato tale perché basandosi sulla illusione della razionalità intrinseca degli strumenti ha fatto perdere di vista il giudizio sul merito e sui fini. Di fatti il cv strabicamente riduce tutta la complessità delle aspirazioni e delle motivazioni personali al solo percorso di carriera. Svilisce le relazioni umane, i valori personali e i sentimenti. In ultima istanza attua una netta separazione tra vita e professione, per questo induce in errore perché apre il fronte alla rivalsa che la vita personale con tutto il suo bagaglio di valori, comportamenti, aspirazioni, sta già preparando subdolamente nei confronti della organizzazione.
Per superare i limiti del cv bisogna sostituirlo con la storia professionale.
Nella storia professionale devono trovare spazio i perché, i come e i “con chi”.
I soggetti devono descriversi con percorsi reali e quindi complessi. Descrivendo gli andirivieni, i ripensamenti e quindi i percorsi circolari.
Questo perché la maturità in generale, quella professionale non fa eccezione, si acquisisce spesso ritornando sui propri passi, e le contraddizioni non sono un tabù (come nel cv) e ritornano ad essere il fattore scatenante della crescita umana.
Il cv deve essere messo in discussione perché le aziende oggi hanno bisogno di persone con caratteristiche tali per cui il modello cv non è più lo strumento confacente.
Le organizzazioni cercano persone in grado di integrarsi, persone ambiziose che siano disposte a sposare gli obiettivi aziendali e che si sviluppano insieme al proprio team da cui la propria carriera non prescinde.
Persone di cui è diventato più rilevante quello che pensano rispetto a quello che sanno fare.
Il CV è il portato di una visione dello sviluppo professionale artificiosa, conseguente alla applicazione dei principi del fordismo anche ai processi umani. Di fatto i CV sono sequenziali, non ammettono incoerenze nemmeno apparenti. Non è ammissibile un CV senza miglioramenti né ampliamenti di responsabilità nel corso del tempo. È in effetti la trasposizione economicistica dello sviluppo progressivo e permanente allo sviluppo professionale. Il cv non ammette ripensamenti né distrazioni, non è possibile che qualcuno possa ritornare sui propri passi per approfondire una esperienza o semplicemente per ricominciare. Non c’è spazio per la sperimentazione perché sarebbe letta negativamente come discontinuità. Il CV misura il tempo che scorre solo in avanti e che appare intrinsecamente come una corsa in velocità: le tappe vanno percorse il più velocemente possibile.
Chi “lavora con le persone” allora deve fare attenzione seriamente al “mito distorto” del CV. Esso è il mito che porta ad assumere o a far crescere manager con cv eccezionali e iper-specializzati perdendo di vista che la specializzazione è un sapere “povero” se confrontato alle capacità. È lo stesso mito che privilegia CV “veloci” che hanno bruciato tutte le tappe ma assolutamente inesperti perché l’esperienza, ce ne siamo dimenticati, non può prescindere dal tempo e dalla riflessione. L’esperienza è un processo di accumulazione e non un percorso di velocità.
Il mito distorto del cv è diventato tale perché basandosi sulla illusione della razionalità intrinseca degli strumenti ha fatto perdere di vista il giudizio sul merito e sui fini. Di fatti il cv strabicamente riduce tutta la complessità delle aspirazioni e delle motivazioni personali al solo percorso di carriera. Svilisce le relazioni umane, i valori personali e i sentimenti. In ultima istanza attua una netta separazione tra vita e professione, per questo induce in errore perché apre il fronte alla rivalsa che la vita personale con tutto il suo bagaglio di valori, comportamenti, aspirazioni, sta già preparando subdolamente nei confronti della organizzazione.
Per superare i limiti del cv bisogna sostituirlo con la storia professionale.
Nella storia professionale devono trovare spazio i perché, i come e i “con chi”.
I soggetti devono descriversi con percorsi reali e quindi complessi. Descrivendo gli andirivieni, i ripensamenti e quindi i percorsi circolari.
Questo perché la maturità in generale, quella professionale non fa eccezione, si acquisisce spesso ritornando sui propri passi, e le contraddizioni non sono un tabù (come nel cv) e ritornano ad essere il fattore scatenante della crescita umana.
Il cv deve essere messo in discussione perché le aziende oggi hanno bisogno di persone con caratteristiche tali per cui il modello cv non è più lo strumento confacente.
Le organizzazioni cercano persone in grado di integrarsi, persone ambiziose che siano disposte a sposare gli obiettivi aziendali e che si sviluppano insieme al proprio team da cui la propria carriera non prescinde.
Persone di cui è diventato più rilevante quello che pensano rispetto a quello che sanno fare.
giovedì 10 maggio 2012
Corporate Wellness: perchè alle aziende conviene investire sullo sviluppo delle persone
Perché un’azienda dovrebbe
occuparsi dello sviluppo personale dei propri dipendenti? Lo sviluppo etico,
civile, culturale e fisico ed in generale il benessere delle persone è una gran
bella cosa… ma perché dovrebbe interessare ai managers delle aziende? La
risposta è perché gli conviene. Di fatti i programmi che molte aziende
innovative stanno introducendo all’interno delle proprie organizzazioni non
sono semplicemente un fenomeno di moda oppure l’attribuzione di un utile benefit
accessorio e temporaneo per i propri dipendenti. Questi programmi sono
l’applicazione di strategie di “egoismo lungimirante” (come lo chiamerebbe
Pierluigi Celli) in quanto sono investimenti con elevato ritorno in termini di
produttività e di riduzione dei costi.
Approfondiamo l’argomento….
Le aziende normali attuano
programmi di formazione e sviluppo su contenuti che servono al lavoratore per
il ruolo che ricopre o che andrà a ricoprire. Che sia training tecnico e/o
manageriale (nei piani formativi ho visto definizioni quali formazione di ruolo
e formazione tecnica) il messaggio abbastanza esplicito è: io azienda investo
risorse e il tuo tempo perché così posso “utilizzarti” meglio e aumentare la
tua produttività. Anche la formazione linguistica è somministrata con lo stesso
criterio di ruolo. I piani di sviluppo manageriale hanno lo stesso mindset:
l’azienda sviluppa la tua leadership e le tue capacità gestionali perché tu sia
uno strumento gestionale più efficace e funzionale agli obiettivi aziendali.
Siamo chiari… va tutto bene… a trovarle aziende che
investono sullo sviluppo del loro capitale umano! Ma oggi è sufficiente? Ma
perché allora ci sono aziende che spendono soldi per aiutare a smettere di
fumare o per esempio offrono programmi di benessere o sportivi?
Il motivo è che il contratto
psicologico che lega organizzazioni e lavoratori sta cambiando e lo scenario in
cui operano le aziende, in particolare quelle ad alto contenuto tecnologico, ha
reso difficile se non impossibile a causa della permanente incertezza, pianificare
i contenuti di sviluppo e formazione su cui investire.
Ecco allora che i programmi di
sviluppo personale e di benessere nell’ambiente di lavoro hanno l’effetto di
aumentare sensibilmente la produttività del personale, l’allineamento,
l’attaccamento all’’azienda, ridurre il turn-over, ridurre l’assenteismo e i
comportamenti contro-dipendenti, aumentare le capacità negoziali e di sviluppo
della innovazione.
Non si tratta di intuizioni senza
ancora fondamento… ci sono infatti già ricerche quantitative autorevoli che
dimostrano il ROI di questi programmi (cfr Harvard Business Review
gennaio/febbraio 2011 per esempio).
Il contratto psicologico che lega
lavoratore e azienda è cambiato nel senso che non è più basato semplicemente su
uno scambio tra prestazione e retribuzione ma è diventato una relazione
complessa biunivoca di fiducia, rispetto di principi etici, di coinvolgimento
completo della persona e di visione del futuro. In questo senso i componenti di
una organizzazione si aspettano che l’azienda investa su tutta la persona nel
suo complesso (capacità intellettuali, gestionali, linguistiche, relazionali,
fisiche etc.) assumendo anche un ruolo proattivo e propositivo sul proprio
percorso di crescita. Ecco allora che un investimento aziendale su questi
elementi ha un ritorno molto elevato in termini di motivazione, partecipazione
e attaccamento rispetto agli investimenti formativi “classici”.
Perché questi programmi abbiano
successo bisogna tener conto di alcuni fattori critici:
1. bisogna che ci sia coinvolgimento
della leadership a vari livelli: è importante che il mangement a tutti i
livelli scelga di partecipare ai programmi e sponsorizzi internamente
l’iniziativa. Senza il supporto del management o addirittura una bocciatura da
parte dei “capi”, questi programmi potrebbero diventare addirittura un
boomerang negativo dimostrando lo scollamento tra i membri della linea
gerarchica.
2. è necessario che ci sia coerenza
tra i programmi prescelti con l’identità e la cultura dell’azienda: se
l’azienda propone iniziative molto distanti dalla cultura aziendale il rischio
è che queste vengano viste solo come una operazione di facciata. È anche vero
che i cambiamenti culturali all’interno delle organizzazioni avvengono
lentamente e che quindi bisogna tener conto comunque di un ritardo fisiologico…
3. bisogna che i programmi
abbiano una diffusione generalizzata: perché vengano percepiti di valore è
importante che l’azienda renda disponibile la partecipazione a chiunque voglia aderire
senza segmentazione di ruolo, di gerarchia o altro.
4. alta qualità: i programmi
devono essere percepiti come un investimento di valore e non come un surplus
temporaneo. Quindi bisogna scegliere partner e fornitori di alto livello.
5. comunicazione efficace: i programmi
devo essere accompagnati da una comunicazione interna permeante ed efficace.
Assolutamente necessaria è la possibilità da parte di coloro che hanno aderito
di avere uno spazio di discussione aperto (p.e. sulla intranet) dove commentare
e coinvolgere tutto il resto della azienda.
martedì 13 marzo 2012
Organizzazione virale
L’evoluzione del paradigma competitivo unitamente allo
sviluppo di nuove tipologie di competenze manageriali porta al superamento del
modello organizzativo verticistico e piramidale a cui siamo abituati da più di
un secolo e l’affermarsi parallelamente di un nuovo modello organizzativo che
si potrebbe definire “virale”. L’organizzazione virale contraddistingue le aziende
fortemente orientate al mercato, flessibili, e in particolare di medie
dimensioni.
Le organizzazioni
devono oggi operare in uno stato:
·
di crisi permanente;
·
di cambiamenti costanti e repentini.
Come affermano Foster e Kaplan in Creative Distruction 2001
“le aziende per sopravvivere hanno bisogno continuamente di reinventarsi, di
cannibalizzare attivamente i propri prodotti e i propri modelli
operativi”.
In un contesto di questo tipo l’organizzazione gerarchica
costituisce una forma troppo rigida per poter competere efficacemente. Ecco allora
che si costituiscono forme organizzative basate su sfere di influenza e non per
organigramma. Nell’organizzazione virale le responsabilità sono definite ma le
gerarchie sono multidimensionali. Le responsabilità e le decisioni connesse non
riportano attraverso i vari rami aziendali al capo azienda ma a seconda delle
competenze e delle esperienze possono concentrarsi in punti diversi.
L’organizzazione virale come modello sociologico è
associabile ad una community (ma anche al clan/tribù antropologica) dove in un
sistema integrato convivono diverse sfere di influenza, in contrapposizione al
modello verticistico di tipo militare tipico dell’organizzazione gerarchica.
Il modello virale si sviluppa come risposta al nuovo ambiente
competitivo grazie anche all’emergere di nuovi profili manageriali, nuove
competenze e nuovi stili di leadership.
Infatti all’interno di queste nuove organizzazioni è
possibile osservare l’affermarsi di tanti profili “ibridi” che associano
funzioni diverse (commerciale + HR, produzione + finance, etc.) basati su ruoli
orizzontali di processo e non di funzione, con competenze integrate impensabili
all’interno delle organizzazioni gerarchiche. Inoltre nell’ambito delle nuove
competenze manageriali si affermano prioritariamente le capacità di costituire
alleanze che vanno oltre i rapporti lavorativi, capacità che privilegiano il
fare gruppo a discapito della competizione interna.
Per ciò che riguarda il modello di leadership, le nuove organizzazioni
sviluppano stili di leadership contraddistinti dalla capacità di gestire
l’incertezza, di valutare e calcolare
rischi con scarse informazioni e di prendere decisioni in situazioni con
scarsità di tempo.
Le organizzazioni virali favoriscono il risk taking perché
creano rapporti solidali tra i membri e attraverso le alleanze gestiscono anche
i fallimenti temporanei. Esse favoriscono percorsi di carriera diversi rispetto
al passato e presuppongono processi di recruiting e selezione coerenti.
Le organizzazioni virali durante la selezione, dopo aver
verificato le competenze tecniche, privilegiano i candidati che maggiormente si
sposano con la cultura del gruppo e che potenzialmente siano in grado di
sviluppare senso di appartenenza. In queste organizzazioni si può scientemente
rinunciare ai candidati con un cv migliore perché è il gruppo che privilegiano
e non il singolo. I cv più interessanti sono quelli discontinui che mostrano
apparenti salti da un ruolo ad un altro e che possono indicare capacità di
adattamento e sincretismo di mestieri. Le persone più adatte sono quelle che
dimostrano di esser più inclini a imparare dagli altri.
Anche i percorsi di carriera sembrano apparentemente
discontinui. Inoltre, queste organizzazioni, privilegiando le responsabilità, l’influenza
e le performance a discapito della gerarchia, disinnescano tutti gli effetti
negativi delle organizzazioni gerarchiche quali la esclusiva crescita
verticale, il legame casella organizzativa con la retribuzione e non ultima la
sindrome di Peter.
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