domenica 2 aprile 2017

4abetterworld


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A chi sta entrando oggi nel mondo del lavoro, direi di iniziare il prima possibile perché l'esperienza vale. Si parla molto di sostituibilità dell'uomo, di macchine e lavoro del futuro. Quello che vedo e suggerisco ai giovani è di pensare a lavori che offrano un servizio alle persone. Che non siano prevedibili perché saranno più difficili da standardizzare. E infine che richiedano una forte creatività. È difficile indicare una mansione precisa, ma credo che questo mix possa garantire un'occupabilità maggiore.     


martedì 14 aprile 2015

Gestione del talento, meritocrazia e contesto familiare


Su "Affari & Finanza" di ieri 13 aprile 2015 ho trovato molto interessante la pubblicazione di una ricerca commissionata da Manageritalia sul tema della gestione del talento nel nostro Paese.
In particolare ha colpito la mia attenzione la pubblicazione della tabella che ho riportato sopra.

Il "vero talento" è: flessibilità mentale, intelligenza vivace, visione d'insieme e capacità propositiva... peccato che poi i contesti organizzativi tramite processi, procedure e organigrammi non lasciano spazio all'esercizio di queste virtù... per questa ragione a volte penso che i veri talenti non stanno nelle aziende... ma poi scaccio velocemente questi pensieri... (meglio).

L'altro dato che a me pare sorprendente è la funzione prioritaria affidata al contesto familiare nel favorire lo sviluppo del talento... Mi piacerebbe tantissimo fare un confronto su questo tema con altri paesi. In Italia a mio avviso stiamo assistendo all'affermarsi di un ruolo della famiglia sempre più "supplente" rispetto ad altre istituzioni. Mi viene da pensare per esempio alla scuola dove sempre più i genitori vengono coinvolti nella istruzione di base dei ragazzi.
Una società come quella italiana dove il contesto familiare costituisce di nuovo la risorsa principale per lo sviluppo personale (anche del talento) mi spaventa perchè rappresenta una dinamica non meritocratica e perchè rafforza le disuguaglianze sociali.


  

lunedì 23 marzo 2015

love your work

Pubblico l'abstract dell' intervento che terrò alla conferenza del 20 aprile 2015 a Bari organizzata dall'Università e dashumankapital.com


Amare il proprio lavoro non è più soltanto l’aspirazione legittima di ogni lavoratore. Far sì che i propri collaboratori amino il proprio lavoro è diventato anche l’obiettivo che si stanno prefiggendo sempre più aziende. Non è passato tanto tempo dalla “scoperta” delle relazioni umane nei luoghi di lavoro (Hawthorne 1927) per arrivare all’affermarsi di concetti quali l’importanza del clima aziendale, della partecipazione e della motivazione dei lavoratori. Oggi siamo entrati in una fase nuova, per certi versi estrema. Una fase in cui si arriva a desiderare che i propri dipendenti “amino” il proprio lavoro. Non è un nuovo “buonismo” o una “pia illusione”. Alle aziende “conviene” che i propri collaboratori sviluppino un elevato senso di appartenenza ed identificazione e coerentemente fanno investimenti per raggiungere l’obiettivo. Questo spiega perché tanti casi di successo di gestione dello human capital possono essere letti e interpretati utilizzando schemi inconsueti per le discipline puramente aziendali ma più consoni ad altri sistemi sociali quali le organizzazioni no profit, i partiti e le associazioni.  I sistemi gestionali cambiano necessariamente: le aziende selezionano e motivano persone in grado di integrarsi, persone ambiziose che siano disposte a sposare gli obiettivi aziendali e che si sviluppano insieme al proprio team da cui la propria carriera non prescinde. Persone di cui è diventato più rilevante quello che pensano rispetto a quello che sanno fare.


venerdì 21 marzo 2014

Primo decreto Renzi sul lavoro

È uscito oggi in gazzetta ufficiale il DECRETO-LEGGE 20 marzo 2014, n. 34 “disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell'occupazione e  per la  semplificazione  degli  adempimenti  a  carico   delle   imprese” o più semplicemente primo passo del jobs act del governo Renzi.
Premesso che “Le riforme del lavoro non creano occupazione ma l’occupazione la generano le imprese e quindi una buona riforma rende il rischio di assumere più sostenibile e quindi incentiva le imprese a rischiare (assumere di più)”, da una prima lettura del testo mi sembra di poter dire prudentemente che siamo sulla strada giusta…. vediamo perché:

  • L’eliminazione del requisito della causalità dai tempi determinati cancella un procedimento burocratico che non tutelava nella sostanza nessuno e che aveva l’effetto soltanto di aumentare il rischio del contenzioso legale e quindi disincentivare l’instaurazione di nuovi rapporti di lavoro. Con questo tipo di intervento finalmente si creano le condizioni di una maggiore correlazione tra reali fabbisogni delle aziende e piani di sviluppo occupazionali su un orizzonte temporale di almeno 3 anni. È evidente che nel caso auspicato di un consolidamento e di un successo dei piani aziendali, sarà interesse della stessa azienda stabilizzare i contratti temporanei al fine di salvaguardare gli investimenti di formazione e sviluppo sulle persone. È ancor più evidente che nello specifico ciclo economico/produttivo in cui ci troviamo, questo provvedimento evita alle aziende che ipotizzano una crescita, di irrigidirsi negli organici e quindi le rende più disponibili ad accrescere il numero dei lavoratori avendo più certezza dei costi e minori minacce da parte di ricorsi distorsivi alla magistratura.
  • La possibilità di prorogare fino ad un massimo di 8 volte il contratto a tempo determinato entro il limite di 3 anni (sulla stessa attività lavorativa), è un altro intervento positivo in grado di spingere le aziende a portare il cuore oltre l’ostacolo e quindi a generare più occupazione dipendente. Di fatti le facoltà di proroga danno la possibilità di flessibilizzare gli organici conformandoli alle effettive necessità previsionali e incentivando gli investimenti che generano occupazione.
  • La semplificazione dei contratti di apprendistato era da tempo auspicata. In particolare la eliminazione dalla obbligatorietà del ricorso alla offerta formativa pubblica sana una distorsione spesso poco utile nei contenuti (corsi)  e soprattutto molto onerosa dal punto di vista della gestione burocratica da parte delle aziende. Anche questo intervento mi pare che vada verso una riduzione degli adempimenti, una riduzione dei rischi di contenzioso e di conseguenza incentiva maggiormente le aziende ad assumere.


Per quanto riguarda tutte quelle posizioni avverse, a mio avviso ideologiche, che ritengono che una aumento della flessibilità in ingresso significhi “sempre” un aumento della precarietà, bisogna invece rispondere portando la riflessione sulla specificità del ciclo produttivo in cui ci troviamo e sulla situazione occupazionale attuale. Con il presente alto livello di disoccupazione infatti maggiore flessibilità in entrata significa maggiore possibilità di occupazione a fronte di una crescita di investimenti.  La Legge Fornero, che aveva il pomposo obiettivo di plasmare "un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità" è rimasta una dichiarazione di principio, non seguita da risultati concreti. La Fornero, con la complicità della Cgil, si era basata sull'assunto “errato” e solo teorico che per creare occupazione stabile, era necessario irrigidire la flessibilità in entrata dei contratti di lavoro*.

Speriamo quindi che il percorso in parlamento non snaturi questo primo provvedimento….


*la fonte del corsivo è Giorgio Giva ex responsabile delle relazioni industriali di Fiat Auto da cui nel mio piccolo ho imparato molto


domenica 1 dicembre 2013

PIL trimestrale italiano e disoccupazione giovanile



Gli ultimi dati ISTAT continuano a fotografare la situazione drammatica della disoccupazione giovanile. Una generazione di italiani è senza lavoro ma soprattutto una generazione non ha l’opportunità di formarsi per diventare lavoratori “maturi” e competenti. Di fatti tutte queste persone non stanno avendo la possibilità di imparare “lavorando” in una fase cruciale della loro vita lavorativa. La conseguenza drammatica sarà che, anche se a breve l’economia ripartirà e si spera ricomincerà a creare lavoro, queste persone saranno “fuori” da questa ripresa perché non in possesso delle competenze e delle esperienze “adatte” per le organizzazioni.
La realtà è diventata grave anche per i laureati. In modo particolare per le lauree umanistiche e legali. Così come per il mercato del lavoro in cui è evidente che la riforma fornero purtroppo non ha avuto effetti anti-crisi occupazionale, anche per le università occorre ripensare seriamente ad una riforma che colleghi studi e sbocchi lavorativi. Mi piange il cuore doverlo dire ma non possiamo più permetterci scelte di studio mosse soltanto da motivazioni “vocazionali” e/o culturali. Tutti dovremmo spiegare ai ragazzi (e in modo particolare i professori) che si accingono a fare le loro scelte di studio che oggi purtroppo non c’è tempo di scelte di passione ma che bisogna orientarsi verso “titoli” che siano in grado di dare una occupazione e che mettano in grado di percepire un reddito.
Senza scomodare teorie macroeconomiche, possiamo renderci conto tutti che il nostro sistema sociale si regge su un patto tra chi produce reddito e chi lo ha in passato prodotto o che a breve lo produrrà. Questo patto rende possibile i servizi pubblici, lo stato sociale, la scuola, la sanità e tutto ciò che la società offre a ogni cittadino e a cui noi ci siamo abituati come una realtà immutabile. Con una generazione che non è in grado, non per sue responsabilità, di generare reddito il sistema rischia di deflagrare.

Sarò provocatorio ma forse è il caso di spiegare a chi si appresta a fare delle scelte di studio o in genere professionale che diventare generatori di reddito non è solo un diritto ma anche un dovere di cittadino.